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sabato 31 agosto 2013

Il fico maledetto



Via del Fico è una strada nel cuore del quartiere di Santa Croce che prende il nome da un albero seicentesco cresciuto da quelle parti. In antico si chiamava via del Pepe, in onore ad una delle spezie più ambite e ricercate che fecero arricchire la famiglia  de' Pepi, che qui avevano i magazzini per stivare le loro mercanzie, ma qualche anno dopo il nome cambiò, sembra, anche grazie ad una misteriosa leggenda che aveva per protagonista, guarda caso, proprio un bel fico. 


Nel vicolo c'era un palazzo con un bel giardino, circondato da verdi siepi profumate, nel quale c'era una pianta magica che faceva degli splendidi fichi che nessuno, però, poteva cogliere perché erano protetti da un ringhioso cane nero. Gli sciagurati che erano riusciti a schivare la sorveglianza dell'animale ed avevano mangiato uno di quei frutti, erano stati quasi per morire e mai più avevano ritentato la sorte.  Durante alcuni scavi per riaggiustare il parco, i giardinieri trovarono una lapide, proprio fra le radici dell'alberodannato,  nella quale si avvertiva di non tagliarlo mai,  pena la malasorte eterna. Ma il proprietario, pur sapendo del fatto, non si fece intimidire e decise di togliersi dai piedi quell'ingombrante presenza che tanti danni aveva già fatto e che aveva allontanato amici e conoscenti.  E così dette ordine di procedere: il fico fu abbattuto insieme ai suoi infernali segreti e, come era prevedibile, la sciagura si abbattè subitamente sulla casa: il gran signore che aveva osato sfidare le forze del male, da ricchissimo che era, si ritrovò povero, solo e malato ad elemosinare per le strade fiorentine, sbeffeggiato dai passanti a cui raccontava la sua incredibile storia.


venerdì 30 agosto 2013

La moneta santificata



Il grossone fiorentino era una moneta d'argento chiamata così perché più grande dei comuni spiccioli di taglio minore.Su una faccia c'era un'aquila mentre  sull'altra l'immagine della Beata Vergine Maria con il Bambino. Fin qui, niente di particolare, se non per una misteriosa tradizione che lo fece diventare oggetto di devozione dei fiorentini.






Nel 1392, ad Empoli, un giocatore impenitente perse tutti i suoi averi nell'ennesima partita e, rabbioso come una belva inferocita, dette in escandescenze. Alla vista dell'ultima moneta che gli era rimasta, per impedire all'avversario di mettersela in tasca, la pugnalò con forza e dall'immagine sacra sgorgò un fiotto di sangue. Il grossone ebbe da allora la meritata promozione a reliquia tanto che i frati di Santo Spirito, nel giorno della Passione, la esponevano alla pubblica venerazione e in caso di particolari omelie contro il vizio del gioco e della bestemmia la mostravano dal pulpito come monito per non peccare.




giovedì 29 agosto 2013

Vietato dormire!



In piazza Santa Trinita, proprio davanti alla colonna della Giustizia, c'è un'elegante dimora gentilizia costruita in stile rinascimentale con elementi alla romana: è palazzo Bartolini Salimbeni, edificato su disegno di Baccio d'Agnolo negli anni venti del Cinquecento. Nella facciata, animata dall'uso di diverse pietre, le finestre hanno un taglio totalmente nuovo, timpani e colonne creano un movimento mai visto fino ad allora, una timida ma resoluta strada verso il manierismo che, fra non molto tempo a venire, diventerà protagonista dell'arte. 







I tre piani del palazzo sono suddivisi da cornicioni con decorazioni che, a prima vista, possono sembrare dei semplici ornamenti di fantasia, ma alla luce della storia della famiglia Bartolini prendono tutto un altro significato, specialmente congiunte alla bizzarra iscrizione su uno dei finestroni "Per non dormire": sono semi di papavero, un oppiaceo che tiene svegli, simbolo ed orgoglio dei Bartolini che erano più che desti nel trattare i loro affari! Un aneddoto racconta che uno dei membri della casata, nel Trecento, astuto mercante di spezie, riuscì a sbaragliare i suoi avversari, facendoli addormentare durante una ricca cena prima di partire per l'Oriente in cerca di tesori. Bennuccio versò nel loro vino un po' di polvere del cuore di papavero e i suoi colleghi si assopirono tranquillamente, mentre lui si accingeva a trattare lauti affari che gli valsero un ricco compenso.

mercoledì 28 agosto 2013

Quel gran cuoco di Leonardo



Che Leonardo fosse un genio poliedrico non ci sono dubbi, ma che si interessasse anche di cucina non me l'aspettavo proprio! Eppure le sue "annotazioni gastronomiche" che ci arrivano dal Codex Romanoff, ritrovato in Russia nel 1865 fra i tesori degli Zar, parlano chiaro. A dire il vero c'è chi sostiene che siano una "bufala" e che a scriverli non sia stato lui, o almeno non totalmente, ma da Leonardo c'è da aspettarsi veramente di tutto, visto che, tra l'altro, il cuoco l'ha fatto per davvero! A vent'anni entrò come apprendista nella bottega del Verrocchio ma, dato che la paga lasciava molto a desiderare, decise di raggranellare qualche altro soldo facendo il cameriere nella Taverna delle Tre Lumache, vicina al Ponte Vecchio. Il ragazzo, si vede, ci sapeva fare tant'è che il proprietario, dopo la misteriosa morte di tutti i suoi cuochi per avvelenamento, lo promosse in cucina. Rigoroso e innovativo, Leonardo si mise "a civilizzare" i piatti, riducendo le porzioni esagerate e presentando i cibi con raziocinio ed eleganza. Naturalmente i cambiamenti non piacquero agli avventori, abituati a rimpinzarsi con enormità di pietanze e il giovane cuciniere dovette darsela a gambe per non essere linciato! Ma si rifece aprendo una locanda con l'amico pittore Sandro Botticelli, battezzandola Taverna delle Tre Rane, che però ebbe poco successo: saranno stati i piattini da nouvelle cousine oppure i menu scritti da sinistra verso destra, però la gente non ci andava e fu chiusa quasi sul nascere. Leonardo, stanco e deluso, non trovando più lavoro come cameriere - chissà perché?! - se ne andò alla corte di Ludovico il Moro come tuttofare, dopo aver scritto una lettera di autopresentazione che suonava così:


Io non ho rivali nel costruire ponti, fortificazioni e catapulte; e anche altri segreti arnesi che non ardisco descrivere su questa pagina. La mia pittura e la mia scultura reggono il confronto con quelle di qualunque altro artista. Eccello nel formulare indovinelli e nell'inventare nodi. E faccio delle torte che non hanno uguali.

Fu proprio a Milano che Leonardo dette il meglio di sè: inventò i più miracolosi aggeggi da cucina come il cavatappi, il trita aglio e l'affettatrice. A tavola, per evitare la disgustosa abitudine di pulirsi la bocca alla tovaglia, creò dei pezzetti di tela, uno per commensale, antesignani dell'odierno tovagliolo.
Fra le altre diavolerie sembra che il grande pensatore abbia ideato anche una macchina per fare gli spaghetti, che custodiva gelosamente non mostrandola mai a nessuno.




Tornando al Codex Romanoff dal quale eravamo partiti per spiare i risvolti segreti della vita di Leonardo, scopriamo una serie di ricette, dalla zuppa di cavallo a quella di rana, e di norme per evitare le abitudini sconvenienti a tavola, quasi un prototipo del famoso Galateo di Monsignor Della Casa.
Queste regole sono troppo belle, che siano state scritte da Leonardo o meno; eccone alcune:

- Non sedere in braccio ad altri ospiti, non sedersi sul tavolo, né appoggiarvi la schiena 
- Non posare la testa sul piatto. 
- Non mettere bocconi masticati nel piatto del vicino. 
- Non pulirsi l’armatura a tavola. 
- Non nascondersi il cibo nella borsa o negli stivali per magiarseli in seguito. 
- Non leccare il vicino. 
- Non roteare gli occhi e fare smorfie paurose. 
- Lasciare la tavola se si deve orinare o vomitare. 
- Non fare allusioni o trastullarsi con i paggi di Ludovico il Moro. 





Carabaccia ovvero zuppa di cipolle rinascimentale




La "carabaccia" fiorentina è considerata, giustamente, la bisnonna della zuppa di cipolle. La ricetta arriva dal lontano Rinascimento, il periodo d'oro delle sperimentazioni culinarie in cui nacquero gelati, salse, polpette e tanti altri piatti che sono arrivati fino a noi ancora intatti nella loro sorprendente modernità.
Il nome deriva dal greco karabas che significa "barca a foggia di guscio",  riferendosi alla forma concava della zuppiera che nel 500 veniva infatti chiamata carabazada. Il termine "carabaccia", tuttavia, è stato coniato solo nel 1963 in occasione della Mostra dell'Antiquariato di Firenze, durante una grandiosa cena rinascimentale, in cui si è servita la versione originale tratta dal ricettario del raffinato cuoco Cristoforo Messisbugo,  "Libro novo nel qual si insegna a far d'ogni sorte di vivanda", del 1557.


Conosciuta già nel Trecento da Boccaccio, nato a Certaldo, terra regina delle cipolle, ebbe grande successo anche nei secoli a venire su tutte le tavole, da quelle più semplici e rurali fino ai banchetti principeschi, annoverando estimatori come Leonardo da Vinci, Giovanni da Verrazzano e Caterina de' Medici che se la portò addirittura "in trasferta" fino in Francia, alla corte del marito Enrico II d'Orleans.
Messisbugo non fece altro che trascrivere fedelmente gli ingredienti tramandati a voce, coniandoli al gusto rinascimentale che prevedeva un sapore agrodolce e speziato: cipolle cotte nel brodo vegetale con aggiunta di aceto, zucchero, mandorle e cannella. Oggi la ricetta si è decisamente trasformata e la carabaccia è rimasta solo una semplice zuppa di cipolle, buonissima, non c'è che dire, ma che nulla ha a che fare con quella originale: via le mandorle, via lo zucchero e la cannella... via, non è più lei! Sarebbe come dire. "togliamo il ponte Vecchio da Firenze, tanto l'è bella lo stesso!"... o che Firenze sarebbe?! Chi la vuol assaggiare nella sua vera natura faccia così:

Pulite e tagliate delle cipolle a fettine sottili e mettetele in un recipiente di terracotta a rosolare con dell’olio d’oliva. Cuocere lentamente a recipiente coperto per mezz’ora, avendo cura di aggiungere un paio di cucchiai d’acqua. Tritare grossolanamente delle mandorle e farle marinare nell'aceto.
Salate la zuppa, pepatela, aggiungete un cucchiano di zuccheroe il trito di mandorle e continuate la cottura, aggiungendo via via del brodo vegetale, a recipiente scoperto per un’altra mezz’ora. Mettete in delle scodelle di portata alcune fette di pane abbrustolito e versateci sopra la zuppa ottenuta. 




domenica 25 agosto 2013

I dolci di Lamporecchio



Fermi tutti: lo so bene che i brigidini non sono fiorentini, ma non c'è festa pagana o religiosa in tutta la Toscana in cui non facciano la loro bella comparsa che mi sembra perlomeno il caso di doverli  ricordare come si fa con i parenti stretti! Nascono a Lamporecchio, ridente paesino fra Empoli e Pistoia, non si sa precisamente quando nè come, perché tante e varie sono le leggende che accompagnano la loro comparsa da non sapersi districare. La storia più simpatica e credibile risale al Medioevo:  una giovane suora del Convento di Santa Brigida a Pistoia, nel preparare le ostie per la Santa Messa con la solita ricetta e i ferri arroventati per cuocerle, sbagliò qualcosa nella procedura e dovette ingegnarsi per non sprecare l'impasto avanzato; bastò aggiungere qualche seme d'anice e dello zucchero ed ecco apparire delle cialde aranciate e fragranti che, spargendo il loro profumo oltre le mura del chiostro, divennero ben presto desiderio di tutto il popolo, tanto che le suore si misero a cuocerne in gran copia per soddisfare le tante richieste. 



Da allora di questi dolcetti ne sono stati prodotti a migliaia di migliaia e, anche se al posto delle schiacce calde di un tempo ci sono le giostre, delle macchine che magicamente li sfornano sotto gli occhi incantati delle persone, il gusto non cambia ed è veramente inimitabile.



Ecco come ne parla Pellegrino Artusi nel suo ricettario:

Il brigidino.....è un dolce o meglio un trastullo speciale alla Toscana ove trovasi a tutte le fiere e feste di campagna e lo si vede cuocere in pubblico nelle forme da cialde.
  • Uova, n. 2.
  • Zucchero, grammi 120.
  • Anaci, grammi 10.
  • Sale, una presa.
  • Farina, quanto basta.
Fatene una pasta piuttosto soda, lavoratela colle mani sulla spianatoia e formatene delle pallottole grosse quanto una piccola noce. Ponetele alla stiaccia nel ferro da cialde a una debita distanza l’una dall’altra e, voltando di qua e di là il ferro sopra il fornello ardente con fiamma di legna, levatele quando avranno preso colore.

Santa Croce di marmo vestita...





La basilica di Santa Croce non è sempre stata così, come la vediamo oggi, ricoperta dai policromi marmi di Carrara che la rendono un gioiello unico nel suo genere.
Prima del 1863 la chiesa era completamente "nuda", come del resto erano e sono ancora San Lorenzo, Santo Spirito, Santa Maria del Carmine, Santa Maria Maggiore ed altre. Sorta, nel 1295, sulle fondamenta di un'altra chiesetta, seguendo, secondo la tradizione, il progetto di Arnolfo di Cambio, mostrava una facciata grezza, di semplice pietraforte a vista. 





Ma già dal Quattrocento avrebbe potuto avere un aspetto molto più raffinato, grazie all'arte del celebre architetto e scultore Simone del Pollaiolo detto il Cronaca e alla munificenza della nobile famiglia Quaratesi che se ne doveva accollare l'onere. Ma in ogni bella impresa c'è sempre qualcosa che va storto e anche stavolta il bastone entrò fra le ruote: i frati francescani negarono il permesso di apporre bene in vista sulla facciata lo stemma degli "sponsor" Quaratesi che, indignati, chiusero i cordoni della borsa e tutto rimase com'era. Le uniche decorazioni che alleggerivano la rustichezza della facciata erano un San Ludovico di Tolosa in bronzo, opera del grande Donatello, ora nel refettorio del convento, il finestrone circolare e il monogramma di Cristo di San Bernardino da Siena subito sopra al rosone, posto nel 1437 durante una drammatica pestilenza per far cessare quella tragedia.




Il mancato finanziamento dei Quaratesi bloccò anche i lavori per la costruzione del campanile che rimase soltanto allo stadio di una grande base squadrata  fino al 1847, anno in cui "il masso di Santa Croce", così ribattezzato dal popolo, si elevò finalmente in una forma snella ed essenziale, su disegno dell'architetto Baccani. La chiesa, invece, restò ferma per secoli finché, tra il 1853 e il 1863, l'architetto Niccolò Matas propose la copertura odierna, ispirandosi  alle grandi cattedrali gotiche, ma con uno stile coniugato al gusto della sua epoca. Il risultato finale non fu molto apprezzato, proprio a causa di questa strana commistione fra antico e moderno, ma nel passare del tempo non solo è stata accettata, ma vista da molti storici dell'arte come un saggio compromesso fra grandezza e semplicità, una qualità di cui non si può fare a meno trattandosi di un tempio francescano.



Le campane in concerto



Il campanile di Giotto ospitava, in origine, ben dodici campane, ma solo sette continuano a far sentire la loro voce argentina: il Campanone o"Santa Reparata", la Misericordia, l'Apostolica, l'Annunziata, la Mater Dei, l'Assunta e l'Immacolata. Le altre 5, più vecchie, sono state dismesse e hanno lasciato il posto alle sorelle giovani che fanno un bellissimo concerto "a doppio" ma solo nelle grandi occasioni, mentre suonano in assolo per scandire le ore liturgiche.



Solo una, la Misericordia, nata nel Seicento per chiamare i fratelli a compiere urgentemente il loro servizio di carità in caso di bisogno, ha anche il triste compito di annunciare la morte di un Capo di Guardia della Confraternita, con tre brevi sonate, dette a ciccia fredda, a significare il corpo ormai senza calore e senza vita.
La maggior parte delle campane è stata rifusa, per evidente logorio dato dal tempo e dall'uso: ognuna è decorata con bellissimi bassorilievi che raffigurano scene mariane e porta inciso il proprio nome, l'emblema  dell'Opera di S. Maria del Fiore e del Comune di Firenze e il nome del Cardinale Dalla Costa che le consacrò in Battistero nel 1956.






sabato 24 agosto 2013

La firma del Cellini


Di sculture a Firenze ce ne sono tantissime e tutte pregevoli, ma che abbiano il ritratto dell'autore nascosto nell'opera se ne trova solo una: è il Perseo di Cellini, che mostra la sua raffinata bellezza fin dal 1554. Collocata in piazza della Signoria, nella Loggia dei Lanzi, rappresenta il famoso eroe della mitologia greca, in piedi sul corpo della Medusa, appena decapitata, mentre regge in mano il capo della mostruosa creatura. E' un bronzo alto 3 metri e 20 complessivamente, con un magnifico piedistallo, a guisa di cuscino, decorato da motivi mitologici. La scultura, esclusi alcuni particolari, fu fusa in un'unico getto e non a pezzi da assemblare, come invece avveniva di solito saldando le parti con riporti in bronzo. L'opera, non solo rappresenta uno dei capolavori del rinascimento, ma era anche il simbolo della preminenza politica del granduca Cosimo I de' Medici che vedeva nella forza del semidio la potenza del suo stesso operato, capace di riportare ordine e giustizia ovunque lui fosse intervenuto. La nascita del Perseo, faticosa e travagliata, durò ben nove anni: ce ne parla con minuziosità il Cellini nella sua Vita, riportando fedelmente tutte le fasi della lavorazione. Il povero Benvenuto si prese la febbre del fonditore dovuta alle esalazioni dei metalli, dovette gettare nella fornace gran parte dei suoi piatti di stagno per supplire alla mancanza di materiale, fronteggiò un tremendo temporale che spense quasi il fuoco e domò un principio d'incendio che stava per distruggere la bottega, ma alla fine il suo diabolico furore riportò una totale vittoria. 
Quando la statua fu esposta al pubblico fu ammiratissima dai fiorentini, omaggiata con lodi, poemi e canti.




A questo punto si può ben capire come mai l'autore di tale strabiliante innovazione stilistica volesse lasciare la sua firma sull'opera, ma facendolo in modo bizzarro, com'era d'altronde il suo carattere:  dietro alla nuca di Perseo, l’elmo ed i suoi capelli ricciuti, con un sapiente gioco di forme, ridanno vita al viso barbuto di Cellini!
















giovedì 22 agosto 2013

In mancanza di vespasiani... Via delle Brache!






Le "brache", a Firenze, hanno molteplici significati: possono essere "quella parte di vestimenta, che cuopre dalla cintura infino al ginocchio" come si legge nel Vocabolario della Crusca, riferendosi ai corti calzoni medievali, oppure un "addobbamento misero, e stretto, fatto di tela per coprir le vergogne agl'ignudi, che si dicono più comunemente mutande" o ancora "lo studiarsi di iscoprire i fatti intimi altrui come l'investigar sotto li vestimenti", spiegazione data dal Dizionario Etimologico. Allora, via delle Brache, vicino a Santa Croce, si chiama così perché era una strada di curiosi o di mutandai









Il suo primo nome fu Via dei Falegnami, seguito poi da Via de' Vagellai e infine fu battezzata via de' Calabrache, in "onore" a tutti quei fiorentini che, in assenza di vespasiani, la usavano come gabinetto pubblico. La sua posizione nascosta, il buio e l'angusto lastricato, la rendevano un luogo perfetto per gli sfoghi corporali, tanto che "siccome il malo odore non haveva a finire" i frati vallombrosani di San Salvi furono costretti a capovolgere la facciata della chiesa di san Jacopo tra i fossi su via de' Benci, con grande sollievo dei fedeli e dei calabrache.



San Jacopo tra i fossi, ora chiesa Evangelica



La vecchia facciata di san Jacopo tra i fossi

mercoledì 21 agosto 2013

Il cibreo


Il cibreo è un piatto tipico della cucina fiorentina che si prepara con le rigaglie di pollo. Per cercare l'etimologia della parola bisogna andare sul Dizionario della Crusca: "Cibreo: probabilmente è corruzione del latino gigèria intestini dei polli". Detta così non fa certo venire appetito, ma andando a leggere la ricetta nell'Artusi le cose cambiano e non poco:
"Il cibreo è un intingolo semplice, ma delicato e gentile, opportuno alle signore di stomaco svogliato e ai convalescenti. Prendete fegatini (levando loro la vescichetta del fiele com'è indicato nel n. 110), creste e fagiuoli di pollo; le creste spellatele con acqua bollente, tagliatele in due o tre pezzi e i fegatini in due. Mettete al fuoco, con burro in proporzione, prima le creste, poi i fegatini e per ultimo i fagiuoli e condite con sale e pepe, poi brodo se occorre per tirare queste cose a cottura.
A tenore della quantità, ponete in un pentolino un rosso o due d'uova con un cucchiaino, o mezzo soltanto, di farina, agro di limone e brodo bollente frullando onde l'uovo non impazzisca. Versate questa salsa nelle rigaglie quando saranno cotte, fate bollire alquanto ed aggiungete altro brodo, se fa d'uopo, per renderla più sciolta, e servitelo. Per tre o quattro creste, altrettanti fegatini e sei o sette fagiuoli, porzione sufficiente a una sola persona, bastano un rosso d'uovo, mezzo cucchiaino di farina e mezzo limone."


E' un secondo che piace o non piace, non ci sono vie di mezzo! 
Caterina de Medici lo amava a tal punto che tentò di farlo conoscere anche in Francia, dove andò regina, ma là il cibreo non ebbe la stessa fortuna del "papero al melarancio" divenuto "canard à l'orange" e della "zuppa di cipolle" ribattezzata "soupe d’oignons". 

Caterina però non era quel tipo di donna che si lasciava deprimere dalle critiche dei francesi e continuò a mangiarlo con allegria. Si racconta che una voltà ne fece addirittura una tale indigestione da star per tirare le cuoia, ma appena riavuta non perse la voglia di farselo prepararare ancora dai suoi cuochi a guisa di sugaglia con carciofi mondi, pronta a ritentare la sue disavventure culinarie. 

mercoledì 14 agosto 2013

L'hortus dei Rucellai



Nella storia di Firenze, quando si dice "arte", vengono subito a mente quadri, sculture e palazzi, non pensando spesso ai meravigliosi giardini che sono disseminati per la città come miraggi di pace e di ristoro. Naturalmente il più importante è Boboli, immenso parco di Palazzo Pitti voluto da Cosimo I per abbellire la sua residenza, ma ce ne sono altri meno noti e visibili che meritano comunque di essere ricordati.
Prendiamo, ad esempio, il Giardino degli Orti Oricellari,  una delle oasi più antiche e segrete nel quartiere di Santa Maria Novella. 


Il nome, così strano, sembra derivare dal capostipite della famiglia Rucellai, Alamanno, che era stato soprannominato Oricello perché aveva scoperto una tintura per i pannilani ricavata da varie specie di licheni chiamati appunto oricelli.
Il casino di delizia con hortus fu ideato da Bernardo Rucellai e da sua moglie Nannina, sorella maggiore di Lorenzo il Magnifico, alla fine del Quattrocento, per ospitare le riunioni dell'Accademia Platonica di Firenze della quale fece parte solo una ristretta cerchia di personaggi illustri come Machiavelli, Jacopo da Diacceto, papa Leone X e Luigi Alamanni. 
L'animo fiorentino, ardente e polemico, infiammava le discussioni, soprattutto quelle a favore della Repubblica, tant'è che l'Accademia fu fatta chiudere nel 1523, dopo numerosi fermi dei rivoltosi.
Il giardino rimase così chiuso per un lungo periodo finchè Bianca Cappello, favorita di Francesco I de' Medici, stanca del bel palazzo di via Maggio, decise di farne la sua dimora e di riportarlo agli antichi splendori. Così da Sylva Oricellare per gli intellettuali si trasformò in un paradiso di piacere  con spettacolari giochi d'acqua, fontane e statue mitologiche come il colossale Polifemo che beve dall'otre di Antonio Novelli, in muratura intonacata. 





La maliziosa Bianca, che amava stupire i suoi visitatori,  usava fare degli scherzi perfidi e strani agli ospiti e più di una volta ricorse ad una sorta di trappola ricoperta da erba e foglie per far precipitare gli amici in una botola dove erano attesi da trenta figuri mascherati da diavolo, a rappresentare un irreale inferno. Rimodernato nel Seicento per Giovan Carlo de' Medici, il giardino mutò quasi radicalmente nei primi anni dell'Ottocento quando il marchese Giuseppe Stiozzi Ridolfi lo fece mutare in giardino romantico dall'architetto Luigi Cambray Digny. Vennero così creati sentieri e piccoli laghetti, un tempietto e altri luoghi intimi in cui meditare, un insieme di strutture che, a prima vista, poteva sembrare "casuale", ma che era invece stato studiato in ogni minimo dettaglio per evocare emozioni e sentimenti.


Dopo l’Unità d’Italia, l'orto divenne di proprietà della principessa russa Olga Orloff che incaricò Giuseppe Poggi di ripristinarne lo stile originario: la statua del gigantesco Polifemo, che era stata tolta insieme ad altre sculture, venne quindi risistemata dentro uno degli specchi d'acqua, ora fatalmente prosciugato, ed è visibile dal cancello su via Orti Oricellari. Magnifiche sono le grotte seicentesche, di Polifemo e dei Bagni, con scene bucoliche formate da concrezioni spugnose, ora purtroppo in gran parte deteriorate,  ma ancor più degni di nota sono il Pantheon di de Cambray Digny che contiene sepolcri e oggetti appartenuti agli importanti intelletti che animarono il giardino ai tempi dell'otium, e la grotta sotto al palazzo adorna di nicchie decorate da conchiglie e spugne calcaree.

martedì 13 agosto 2013

Da signorine scollacciate a modelli di santità...



Via de' Serragli è una strada del quartiere di Santo Spirito che si dipana, come un lungo nastro grigio, da Piazza Nazario Sauro a piazza della Calza, subito vicino a Porta Romana.
Dall'angolo con via del Campuccio, racchiuso fra altri edifici, si estendeva anticamente il Monastero di Sant'Elisabetta delle Convertite

Uno strano nome per delle suore, ma sapendo che erano "donne di mala vita"  pentite della loro scandalosa esistenza, il discorso torna! La fondazione del convento pare sia stata opera, almeno secondo Giuseppe Richa autore delle "Notizie Istoriche delle Chiese di Firenze ", di fra Simone da Cascia, un predicatore agostiniano che ammoniva i fedeli in Piazza Santo Spirito nel XIV secolo. Numerose furono le prostitute che, illuminate dalle sue sante ammonizioni, decisero di ritirarsi lontano dal mondo, una fra tutte la bella e famosa cortigiana Monna Nera che abbandonò definitivamente la sua disonesta professione all'età di trentun anni. Per intercessione dei Capitani della Compagnia delle Laudi di Santo Spirito, fu eretto, nel 1330, il maestoso complesso religioso che doveva ospitare sia le meretrici che tutti coloro che, dopo una vita dissoluta, accoglievano la fede cattolica, come ricorda una lapide in via del Campuccio, posta sul muro dell’ex-convento.







"Sembra - scrisse lo storico fiorentino Carocci - che le monache godessero di una certa indipendenza; lavorassero per provento proprio e si industriassero, tenendo ognuna dei polli".  Percepivano inoltre i proventi che derivavano dalle tasse che ogni anno le prostitute dovevano pagare all'Offizio dell'Onestà per esercitare la professione in modo legale e di un quarto dell'eredità di ognuna di esse, al momento della loro morte.
Nei continui ampliamenti dell'edificio claustrale, voluti soprattutto dalla granduchessa Maria Maddalena d'Austria, fu incorporata anche la casa natale di san Filippo Neri e la facciata fu adornata dal grande tabernacolo con un Crocifisso attorniato da santi.
Dopo il 1886, quando ormai le Convertite erano state trasferite in via dei Malcontenti, il convento divenne la sede della Società dell'Omnibus a cavallo, con stalle e fienili, e, in seguito, la casa d'accoglienza Pio Istituto degli Artigianelli in cui venivano ospitati dei bambini orfani per avviarli ad un mestiere in modo da garantire loro una dignitosa sopravvivenza.
A perpetuare la memoria di una così preziosa opera di carità, resta ancora la Chiesetta di Santa Elisabetta, ora dedicata al culto ortodosso, ricca di opere di grande valore storico, e l'ex-chiostro che ospita una scuola ed alcuni laboratori artigiani.




Il ponte che non c'è


Su Boccaccio è stato scritto veramente di tutto e non starò certo a dilungarmi sulle solite notizie: nato a Firenze nel 1313, è sicuramente uno dei più grandi narratori italiani, basti pensare al suo Decameron che è stato tradotto in moltissime lingue e ispiratore di altrettante storie e novelle. Ma un aspetto sicuramente singolare di Giovanni  non è forse noto a tutti e mi piacerebbe potervelo raccontare. Come di Virgilio, anche di Boccaccio si almanaccava che fosse dedito alla magia. Nella seconda metà dell'Ottocento, Filippo Pananti, poeta toscano, visitandone la casa, così cantava:

Fu nel popolo ed è certa opinione
che il buon messer Giovanni da Certaldo
fosse un celebre mago, uno stregone
che ora si trova in un paese caldo.

Boccaccio amico del demonio? Chi può saperlo!... Una leggenda però vuole che avesse fatto, in gioventù, un patto con il diavolo che, in cambio della sua anima, gli donò il potere del comando: qualunque cosa avesse bramato, l'avrebbe ottenuta. Il desiderio che espresse Giovanni fu strano ed originale: desiderava un posto segreto dove poter essere libero di fare ciò che voleva in compagnia delle sue amiche streghe, non visto da nessuno. Lucifero, esperto costruttore di sogni e di bisogni, gli creò così, in una sola nottata, un poggio fatto con una sportata di terra, pietre e vegetazione che unì alla casa dello scrittore con un ponte di cristallo, invisibile agli occhi della gente comune.


L'altura, da cui si domina tutto il borgo antico e la Val d'Elsa, esiste davvero ma è in realtà una grande costruzione sotterranea, forse un ipogeo etrusco o una tomba ancora più antica. 


Due sono i finali, molto controversi, della misteriosa fiaba medievale: il primo epilogo vuole che il diavolo, stufo delle continue richieste del Boccaccio, trovasse il modo di strangolarlo nottetempo, portando con sé il suo spirito nefando; il secondo, molto più soave e pieno di speranza, vede Giovanni nel letto di morte, con accanto il prete che lo confessa e lo accompagna negli ultimi momenti: Satana, venuto a reclamare l'anima come da contratto, pieno di rabbia com'è suo costume, sparì in una nuvola di zolfo maledicendo tutto e tutti, ma non riuscì a strappare il cuore dell'agonizzante, ormai tornato a Dio.




lunedì 12 agosto 2013

La ribollita


La ribollita è una minestra molto semplice e sostanziosa della tradizione rurale. E' un piatto povero fatto per i poveri, anche se ora si vanta d'essere un piatto raffinato delle trattorie toscane , tanto da farlo costare come fosse chissà che! Quando ancora non si buttava via nulla e la gente stava attenta a riciclare con intelligenza gli avanzi, il pane raffermo diventava o Pappa col pomodoro, o Panzanella o Ribollita.
Gli ingredienti immancabili sono il cavolo nero, passato dal primo gelo per ammorbidirsi, e i fagioli toscani, ma per le verdure c'è libera scelta: carote, patate, cipolla, sedano, bietole,zucchine, basta che ci sia anche il cavolo verza che deve "aggemellarsi" con quello nero.
Il nome "ribollita" trova origine nel fatto che i contadini ne preparavano una grande quantità verso la fine della settimana, soprattutto il venerdì perché era un piatto magro da Vigilia, e poi la rimettevano a cuocere nei giorni a venire, per rinnovarne il calore e il gusto. Essendo una ricetta toscana, ognuno la vede a modo suo ma l'essenziale è far "ri-bollire" la zuppa, perché se non fosse ripassata al fuoco, sarebbe solo una semplice minestra di pane con ortaggi e legumi! 



Ricetta di Pellegrino Artusi


1 ciuffo di cavolo nero
1/4 di cavolo verza
1 mazzetto di bietola
1 porro
1 cipolla
2 patate
2 carote
2 zucchine
2 gambi di sedano
300 g. di fagioli cannellini
2 pomodori pelati
olio extra vergine di oliva
sale e pepe
250 g. di pane casalingo raffermo


Mettere a bagno i fagioli per circa 8 ore, lessateli in due litri di acqua. In altra pentola fate rosolare la cipolla tagliata a fettine nell’olio di oliva, aggiungete via via tutte le altre verdure tagliate grossolanamente e fatele appassire piano piano per circa 10 minuti, aggiungete quindi l’acqua di cottura dei fagioli e la metà degli stessi. L’altra metà li aggiungerete dopo averli passati al setaccio. Regolate di sale e pepe e fate cuocere a fuoco basso per circa due ore. A questo punto aggiungete il pane raffermo tagliato a fettine, mescolate bene e fate bollire per altri dieci minuti. Lasciate riposare e servite in piatti di coccio con un filo d’olio extra vergine d’oliva rigorosamente toscano.


domenica 11 agosto 2013

Un pane profumato e gentile


Quand'ero bambina il pan di ramerino non si trovava facilmente durante tutto l'anno perché era un dolce riservato quasi unicamente alla Settimana Santa. Non vedevo l'ora di arrivare al giovedì dell'Ultima Cena per respirare il suo tipico profumo, zuccheroso e speziato, che dava un senso di appagamento e di serenità. Sarà stato l'aroma del rosmarino, che blandisce e calma gli animi, sarà stata l'infanzia che mitizza tutto, oppure la benedizione che scendeva su quelle morbide pagnottelle prima di essere consumate, ma quell'appuntamento dal fornaio era per me davvero speciale. Di solito me lo comprava la nonna Beppina e si mangiava solo dopo essersi fatte il segno della Croce, in onore a Gesù Cristo che dopo poche ore si sarebbe immolato per salvare il mondo.


La  storia del pan di ramerino inizia già dal Medioevo quando si credeva che il rosmarino avesse virtù magiche tanto da poter scacciare gli spiriti maligni. Veniva arso, come adesso si fa con l'incenso, per purificare l'aria dalle energie negative e per propiziarsi fortuna  e benedizioni divine. 





La ricetta antica era molto semplice:  "ramerino macinato nel mortaio, passato per staccio, messo in un pentolino che sia pieno d'olio e poi messo in sulla pasta". 
Con il tempo, si è aggiunta l'uvetta e lo zucchero che, caramellandosi, dona quelcolore dorato e lucido caratteristico del panino.
L'impasto si fa con farina, lievito di birra, zucchero e acqua tiepida. Qualche volta vengono aggiunte anche latte e uova, per dare una maggiore morbidezza e sofficità.