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martedì 17 settembre 2013

Un eretico al rogo



Il 16 settembre 1327 fu condannato al rogo il negromante e astrologo Cecco d'Ascoli, al secolo Francesco Stabili di Simeone. Della sua vera vita si sa poco, mentre non si contano storie e leggende che, tuttavia,  affondano le radici in una certa verità.
Un manoscritto narra la tragica vita di Cecco d'Ascoli, mescolando sogno e realtà, passando attraverso "miracoli" ed eresie fino a giungere alla  sentenza di morte in Santa Croce.

Francesco nacque da una famiglia ricca  ma, invece che seguire le orme paterne nel campo degli affari, preferì scegliere il mondo esoterico dei templari. Dopo vari ed avventurosi viaggi,  nel 1314 arrivò a Firenze dove sostò per un breve periodo in attesa di insegnare astronomia all'Università di Medicina di Bologna. Il suo percorso fu sempre costellato da denunce per le sue idee anticristiane e per le previsioni astrologiche che spesso ci azzeccavano in pieno, ma andavano ad urtare i potenti dell'epoca...
Una volta, si legge nel manoscritto, partecipò ad un sontuoso banchetto insieme a molte damigelle. Era una stagione molto fredda e piovosa e una delle signore manifestò il desiderio che arrivasse subitamente il clima mite di fine estate, con un tiepido sole tra le fronde e il buon profumo dell'uva matura.
"Chiudete bene gli occhi!" ordinò Cecco e quando dette l'ordine di riaprirli, la stanza era diventata un bel giardino, l'aria frizzante e dolce di settembre e sulla tavola erano apparsi meravigliosi grappoli maturi.
Ma quando una delle dame tentò di prendere un chicco di quella straordinaria uva, il miraggio si sciolse come neve al sole. Le fortune di Cecco d'Ascoli crollarono miseramente quando fece l'oroscopo alla neonata figlia del Duca di Calabria, presso il quale viveva come consigliere e fiduciario. Non sapendo frenare a tempo la lingua, l'indovino intravide nei segni del cielo che la bimba, una volta divenuta grande, avrebbe sporcato la propria onestà dando liberamente il suo corpo agli uomini. E' facile capire la reazione del padre che cacciò subito l'astrologo , promettendogli di perseguitarlo fino alla fine dei suoi giorni. La fuga toccò varie città d'Italia e infine Cecco riapprodò a Firenze, in una piccola casa in piazza degli Agli. Nonostante ne avesse passate di tutti i colori, non smise mai di divulgare il suo pensiero e una mattina gli sbirri lo andarono a prendere a casa e lo portarono davanti agli Inquisitori. Passando davanti a Santa Maria Maggiore, una donna mise fuori la testa da una finestra, gridando alle guardie di non dargli l'acqua che chiedeva di bere perché si sarebbe salvato. Cecco si volto con occhi spiritati e la maledisse: la testa è ancora là, pietrificata, in una nicchia sulla facciata della chiesa. A dire il vero, la piccola scultura risale a molti secoli addietro, ma pur di fare spettacolo se ne cercano di tutti i colori!




In Santa Croce si tenne il solenne processo durante il quale il negromante non perse mai la calma e ripetè fino all'ultima parola tutto ciò che aveva confessato sotto tortura. Condotto al luogo dell'esecuzione, ormai sfinito dalle botte e dalla sete, fu arso vivo insieme a tutti suoi libri, mentre la città assisteva gioiosa alla conclusione di un'esistenza che aveva scosso troppe coscienze.


sabato 14 settembre 2013

I Medici erano medici per davvero?



L'alchimia è una cultura con radici antichissime il cui nome venne usato per la prima volta da Giulio Firmico, contemporaneo di Costantino il Grande, per indicare una scienza segreta che inseguiva il sogno di poter trasformare i comuni metalli in oro, preparare medicinali che potessero curare tutti i mali e distillare elisir capaci di rendere l'uomo immortale. Questa pratica misteriosa aveva totalmente incantato la famiglia Medici, soprattutto Cosimo I che con i figli Ferdinando e Francesco "si affaccendava intorno ad un'immensa varietà di fuochi, di fucine, di fornelli e lambicchi", come riporta fedelmente in suo reportage del 1561 l'ambasciatore veneziano Vincenzo Fedeli. 
Il laboratorio dell'Alchimista di Giovanni Stradano con l'immagine di Francesco I,  in basso a destra

Le preparazioni sperimentate dal granduca erano di ogni tipo: pastiglie impastate con la terra dell'isola d'Elba per curare gli sbocchi di sangue e le febbri, un olio ricavato dal veleno di migliaia di scorpioni contro la peste, e poi pomate, unguenti e balsami per sfidare ogni tipo di malattia. Don Antonio de’ Medici, figlio di Francesco I, portava un pendente di perla all’orecchio sinistro per curare una malattia agli occhi, mentre i denti di squalo finemente triturati guarivano dagli attacchi di epilessia. Un profumo straordinario, capace di incantare chiunque lo odorasse, si poteva ricavare invece dalle ghiandole dello zibetto, un mammifero africano che veniva allevato proprio per questo motivo in grandi serragli nel palazzo mediceo. 
La prima "fonderia" era in Palazzo Vecchio, ma in seguito fu trasferita nel Casino di San Marco dove artisti, artigiani, distillatori e scienziati almanaccavano i più strani esperimenti, sia in campo farmacologico che in quello della lavorazione della ceramica, del vetro e dei metalli. Francesco, sotto la guida di abili maestri, creò addirittura una porcellana artificiale che venne chiamata, in suo onore, "porcellana medicea". A partire dal 1586 l'officina migrò agli Uffizi, dove rimase per circa duecento anni. Nel Seicento era rinomatissima per la sua produzione farmaceutica, pregio che durò fino alla metà del Settecento: i medicinali venivano inviati, in cofanetti d'ebano e in boccette preziose, come regali prodigiosi ai  nobili più importanti e a tutti i sovrani d'Europa e di paesi lontani.






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venerdì 13 settembre 2013

Una casa per i "pazzarelli"

La Casa Pia di Santa Dorotea dei Pazzarelli


Nell'antichità le malattie mentali erano considerate come una punizione divina, non si sa per quali colpe commesse, tant'è che il povero pazzo aveva non solo da portarsi addosso il peso della sua condizione psichiatrica ma anche il dileggio e l'odio della società. Coloro che erano affetti da demenza, da depressione e da schizofrenia venivano trattati peggio degli appestati: emarginati, derisi, picchiati a sangue e lasciati a morire di fame, di sete e di freddo per le strade come cani rognosi.  Spesso finivano nel carcere delle Stinche o in quello della Fortezza da Basso dove iniziavano la feroce terapia di incatenamento che doveva servire a sedare gli accessi di furore, sicuri che una potente repressione fisica potesse calmare i bollenti spiriti di "quell'ossessi". Gli ospedali li cacciavano via perché non degni di essere curati, i familiari si guardavano bene da tenerseli in casa visto che erano dei "maledetti" , marchiati a fuoco da satana, e perfino i compagni di cella preferivano stare con i criminali peggiori che in loro compagnia. Un frate carmelitano del convento di Santa Maria Maggiore, Alberto Leoni da Mantova, ispirato dal Signore, fece sua la loro infelicità e decise di fondare una casa di accoglienza per tutti i malati di mente. Con l'aiuto dell'Arcivescovo fiorentino Pietro Niccolini, che appoggiò pienamente l'opera misericordiosa, si diede anima e corpo ad attuare ciò che la bontà divina gli aveva suggerito. Purtroppo, morì troppo presto per veder concretizzato il suo sogno, ma un altro frate, Giovanni Antonio Diciotto da Bergamo, raccolse l'eredità del confratello e ne portò avanti il progetto. Finalmente il 6 febbraio 1643 fu acquistata una casetta in via Ghibellina al Canto della Mela dove poterono essere ricoverati tutti quei poveretti "di non sana mente, chiamati volgarmente pazzi" che fino ad allora venivano tormentati, uccisi e reietti dalla società. 




Lo stabile, fino ad allora, era stato un collegio di fanciulle orfane affidate alla protezione di Santa Dorotea e ne mantenne immutato il nome, con l'aggiunta di Casa Pia dei Pazzarelli a indicare chi erano i nuovi abitanti. L'istituto, diretto e amministrato da un prete secolare con l'ausilio di dodici gentiluomini, era aperto sia alle donne che agli uomini e prevedeva il pagamento di una piccola retta e coloro che non potevano permetterselo veniva trasferito nella "pazzeria" annessa a Santa Maria Nuova. Ben presto si presentò il problema del sovraffollamento, tanti erano i ricoverati, e nel 1753 fu trovata una nuova sede, l'antico Ospedale di San Niccolò del Ceppo che era stato soppresso nel 1541.


martedì 10 settembre 2013

Ragazze... tutte a scuola!




Nel 1779 il Granduca Pietro Leopoldo fece costruire quattro scuole pubbliche, una per quartiere, (Spedale di San Paolo per Santa Maria Novella, Santa Caterina per San Giovanni, San Giorgio per Santa Croce e San Salvatore per Santo Spirito) dedicate "all'educazione e al buon indirizzo delle zittelle della città di Firenze, e di quelle più specialmente che attesa la loro miseria, incuria o mancanza dei proprj genitori sono le più trascurate e meritevoli di maggiori riguardi e provvedimenti". Le materie insegnate nelle scuole Leopoldine erano una miscellanea di virtù morali, di economia domestica e di classiche discipline: "i primi doveri di religione, ed il catechismo, le regole della decenza, e pulitezza conveniente allo stato delle ragazze, il leggere, scrivere, abbaco, e lavori donneschi di maglia, cucito e tessere tanto di nastri che di veli, panni lini, e lani di qualunque genere, e drappi in seta larghi e stretti", un insieme di nozioni e di pratica tali da assicurare un buon futuro nella vita delle giovanette, un giorno spose avvedute e madri giudiziose. 

Le bimbe più piccole, per entrare come allieve, dovevano aver compiuto almeno sette anni, mentre le più grandi arrivavano ai diciotto, età in cui erano ormai signorine e potevano cominciare a scrivere la loro storia di donne ormai abili a badare a se stesse ed ad una famiglia.
Alcune allieve delle Scuole Leopoldine

Tutte le ragazze lavoravano e ricevevano un compenso settimanale pari alle loro capacità e, in occasioni particolari, premi e riconoscimenti che servivano ad incentivare la loro voglia di emergere da quello stato di squallida indigenza che altrimenti le avrebbe segnate per sempre. Le maestre, cinque per ogni istituto, erano "intieramente secolari" ossia non legate ad alcun voto religioso, ma ciò nonostante vivevano in una sorta di comunità all'interno delle scuole stesse, ricevendo uno stipendio direttamente dal granduca e avendo per la loro sussistenza "il lume, medico e medicamenti, siccome pure la biancheria tanto da tavola, che da letto".
 Piazza S.M.Novella - Ex Spedale di San Paolo  sede di una delle scuole Leopoldine
Piazza Tasso - L'ex-chiesa e convento di San Salvatore a Camaldoli sede di una delle scuole Leopoldine

mercoledì 4 settembre 2013

Ben venga Maggio...



Il Maggio Musicale Fiorentino fu un'invenzione degli anni Trenta, quando la città cominciò lentamente ad attivarsi per mostrare le sue migliori caratteristiche culturali e artigianali, in linea con i desideri del reggente pensiero fascista. A Firenze c'era già un'orchestra, la Stabile Orchestrale Fiorentina, che si esibiva al Teatro Politeama, poi Comunale, sotto la scrupolosa direzione di Vittorio Gui: i musicisti avevano un vivace e ricco programma annuale che raggiungeva l'apice nelle Stagioni Liriche Primaverili, una rassegna di opere e concerti, sia classici che d'avanguardia. Dopo essere stata eletta Ente Autonomo dal regime, finalmente, nel 1931 dette vita al Maggio Musicale, con l'approvazione e l'appoggio sia del principe di Piemonte che di Benito Mussolini, al quale pare si debba addirittura la scelta del nome. Maggio, in tutta la Toscana, era da sempre celebrato come il ritorno della Primavera ed ovunque lo si onorava con danze, ballate e decorazioni fiorite d'ogni tipo, per cui la scelta  di quel preciso periodo va cercata proprio nelle radici  della tradizione, dove il Calendimaggio rappresentava un momento importantissimo per la città.
Lo scopo della rassegna musicale era quello di riscoprire e rivalutare composizioni dimenticate del repertorio ottocentesco, dare risalto ai lavori dei maestri contemporanei, scegliere dei luoghi privilegiati all'aperto dove gli spettacoli potevano arrivare veramente a tutti e godere della magia incomparabile dei più raffinati scenari di Firenze.


La prima rappresentazione pubblica si svolse a due anni dalla fondazione, dal 22 aprile al 15 maggio 1933 ed ebbe, fra i suoi organizzatori, i più bei nomi della musica e della letteratura, basti pensare che per la messa in scena dei Puritani i costumi e i fondali furono curati personalmente da Giorgio De Chirico.
Balletti, melodrammi, concerti, opere liriche da allora si sono susseguiti senza sosta, anno dopo anno, sopravvivendo alla guerra, alle critiche e, speriamo, anche alle difficoltà del momento presente che stanno mettendo in crisi tutte le Fondazioni più meritevoli e profonde, prova tangibile della totale mancanza di educazione alla Bellezza che ormai sembra essere il leitmotiv dell'indifferente società attuale.

martedì 3 settembre 2013

La tragica storia di Caterina



Caterina Brogi , splendida fanciulla fiorentina, aveva appena vent'anni quando andò promessa sposa al vecchio e brutto Giustino Canacci, "... svenevole e poco pulito..." che non l'avrebbe voluto neppure una megera. Ma i soldi riescono a comprare quasi tutto, specialmente le ragazze ambiziose, così il matrimonio si fece. Com'era prevedibile, la relazione naufragò subito e Caterina se ne andò a vivere, con la  serva, in una casetta in via dei Pilastri. Una così graziosa creatura non poteva restare sola a lungo : ed ecco, fra altre avventure, apparire addirittura un principe, Jacopo Salviati, già sposato da tempo, ma con un debole per le avventure stuzzicanti. La moglie del nobiluomo, Veronica Cybo Malaspina, "non bella, anzi brutta... di animo non buono, disamabile col marito..." era già avvezza alle intemperanze del coniuge, ma questa volta le cose presero una piega imprevista, la passione era troppo impetuosa e le chiacchere non si contavano; Caterina, inviperita ed umiliata,  pensò di affrontare la rivale, cosa che avvenne nella chiesa di san Pier Maggiore, dopo i Vespri. La Canacci, forte della sua posizione privilegiata, non solo non si scompose, ma la derise davanti a tutti, oltraggiandola oltre misura. L'odio di Caterina si elevò a livelli indicibili, tanto da istigarla ad eliminare la rivale: arruolò dei sicari e, con la complicità di due figli del Canacci, riuscì a farli penetrare nella casa della ragazza che fu uccisa barbaramente, insieme alla fantesca. I corpi smembrati furono poi trasportati in parte in riva all'Arno e altri gettati in un pozzo vicino a sant'Ambrogio, ma la testa di Caterina fu consegnata a Veronica che già meditava la seconda parte del piano. Il giorno dopo infatti, primo gennaio 1634,  prese il capo della nemica e lo nascose in un cestino di frutta fresca, facendolo poi recapitare al principe Salviati, ben coperto da una camicia ricamata, come dono amorevole al suo sposo. Lo sdegno del delitto fu immenso, ma i veri colpevoli non pagarono per il crimine, vista l'amicizia del Granduca Ferdinando II con il padre di Veronica, signore di Massa. Gli unici a farne le spese furono i figli del Canacci: Bartolomeo fu decapitato e Francesco mandato in carcere, dopo ben quattordici ore di torture.
Secondo la versione di Francesco Guerrazzi ne La duchessa di San Giuliano, Jacopo lasciò Firenze e stette via per moltissimo tempo, ma a detta delle cronache dell'epoca, il principe, dopo un breve momento di dolore, ritornò al suo vizioso passatempo fra le braccia di nuove amanti, per poi riapprodare, come sempre aveva fatto, dalla crudele ma paziente moglie.
Dopo una vita di riscatto e di pentimento, Veronica morì, molto anziana,  a Roma, a palazzo Salviati. Si dice che il suo spirito si aggiri, ancora inquieto, nella villa di famiglia a San Cerbone, a Figline Valdarno, ora ospedale Serristori, cercando di raccontare la sua versione dei fatti, completamente diversa da quella che è arrivata fino a noi...






lunedì 2 settembre 2013

Il Diavolo in piazza Duomo



Davanti a Santa Maria del Fiore il vento è quasi sempre forte, sia d'estate, quando quella frescura fa venire voglia di fermarsi a prendere fiato, che d'inverno, mentre la gelida ed insinuante tramontana fa volare le sciarpe e i cappelli come coriandoli. Questo fenomeno naturale, che si spiega per la particolare posizione aperta della piazza, viene interpretato anche da una tradizione popolare che ha per protagonista nientemeno che Satana in persona. No, non è la solita storia del "rifrullo del vento" con Lucifero che inseguiva un santo religioso: questa è più inedita e buffa ed ha veramente dell'inconsueto!
Il diavolo, si sa, è sempre agitato e gli piace il disordine, ragion per cui preferisce la burrasca, i temporali e tutto quello che può portare più scompiglio possibile. Il suo migliore amico era quindi il Vento  e con lui spesso si intratteneva sui monti del Valdarno a chiacchierare del più e del meno. Una mattina, ripassando la lista di tutto quello che dovevano fare, decisero di andare insieme a Firenze a sbrigare ognuno le proprie faccende. Per fare il viaggio di ritorno in piacevole compagnia, si dettero appuntamento all'imbrunire, proprio vicino alla Cattedrale. Il diavolo, che credeva di aver poche cose da fare, si trovò invece impegnato oltre ogni dire nel tormentare e tentare le anime. Passa un'ora, ne passano due e il povero Vento, stanco di star lì come un  babbeo, cominciò a sbuffare dall'impazienza. Si sedette sui gradini della chiesa, soffiando sempre più forte, in attesa del suo compare; ma si vede che il lavoro con i fiorentini era davvero laborioso e interessante, perché il diavolo non si fece più vedere e abbandonò al suo destino l'amico che rimase lì, dov'è tuttora, ansimante e arrabbiato, ad aspettare il ritorno dell'eterno ingannatore.



domenica 1 settembre 2013

Cosa c'entra Dante con lo zabaione?





La  chiesa di Santa Margherita d'Antiochia, più nota come Santa Margherita de' Cerchi, è un piccolo tempio cristiano nato nel 1032 nel cuore di Firenze. Con la facciata in nuda pietra, un piccolo campanile a vela, il tettino spiovente a coprire il portale d'ingresso, è semplice e schietta nelle sue forme rigorose, ma ricca di misticità e di storia. Qui Dante conobbe Beatrice Portinari, la musa "vaga e gentile"  ispiratrice di molti suoi poemi e, qualche anno dopo, davanti allo stesso altare, testimone muto di siffatta passione, si sposò con la nobile Gemma Donati. 

Lasciando le vicende dantesche e scendendo più nel prosaico, scopriamo che la chiesa è anche la sede della Venerabile Compagnia dei Quochi dedicata a San Pasquale Baylon, patrono universale dei cuochi. 



Fra le tante leggende che accompagnano la nascita dello zabaione, una riguarda proprio il sant'uomo che, a Torino, durante le confessioni di donne insoddisfatte delle prestazioni dei loro uomini, consigliò di prepare una crema speciale per riaccendere il fuoco dei mariti svogliati: un tuorlo d’uovo, due cucchiai di zucchero, due bicchierini di marsala ed uno d’acqua, ben mescolati e scaldati a bagnomaria finché il frullato non fosse diventato caldo e spumoso.
La ricetta ebbe sicuramente successo, tant'è che prese il suo nome, Sambayon, poi tramutata in zabaione, e ancora oggi è consigliata alle persone deboli e sfinite che abbiano bisogno di una cura miracolosa, specialmente dopo faticose maratone amorose!