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domenica 24 novembre 2013

Il Tabernacolo delle Fonticine




Il Tabernacolo delle Fonticine di via Nazionale è una rarissima gemma artistica della città di Firenze, eretto dal "Reame di Beliemme",  o Bailamme, storpiatura popolare di Betlemme, come si deduce dall'iscrizione posta in basso:


“Questo devoto tabernacholo 
ano fatto fare gluomini del Reame di Belieme. 
Posto in via Sancta Caterina. 
MDXXII“. 



A partire dal 1300, gli abitanti dei rioni si riunivano in brigate, chiamate "Potenze festeggianti" per organizzare b
alli, giochi, spettacoli e banchetti. Questi comitati di gente comune amavano battezzarsi con nomi pomposi e altisonanti e lasciare un segno tangibile del loro prestigio, commissionando raffinate opere d'arte, di cui il Tabernacolo delle Fonticine è ,senza dubbio, una delle più belle. Realizzato nel 1522, forse da Giovanni della Robbia, è stato modellato in terracotta invetriata policroma e raffigura, nella parte centrale, la Madonna col Bambino fra i santi Barbara, Luca, Jacopo e Caterina. 





















Il bassorilievo sorge su una preziosa vasca di marmo nella quale da sette piccoli volti di cherubini zampilla acqua freschissima: da qui il nome "fonticine". Lungo la cornice, oltre a san Sebastiano e san Rocco, si affacciano le teste dei Quattro Evangelisti, di san Lorenzo e di san Zanobi. E nel mezzo, sorretto da due angeli volanti , lo stemma del Reame di Beliemme foggiato con luminose fiamme saettanti.




Direttamente dalle castagne...



La farina di castagne è una delle protagoniste assolute dell'autunno. 
E' una polvere sottile e dal colore caldo, con un sapore naturalmente dolce. 






Serve prima di tutto a preparare il castagnaccio, morbidissima torta profumata al ramerino, ripiena di uvetta e pinoli, ma anche per fare i necci, una specie di crespelle sottili che, una volta cotti, vengono farciti con la ricotta addolcita. 






Sono uno dei piatti tipici delle montagne pistoiesi e della Garfagnana, ma, con un po' di fortuna, si possono trovare anche a Firenze. l loro nome deriva dall'albero del castagno che, proprio in queste zone, viene chiamato "neccio". 




Erano il pasto dei poveri e dei contadini che avevano bisogno di sfamarsi spendendo poche lire, un'alternativa nutriente al grano molto più caro e meno disponibile. L'impasto è semplicissimo da preparare, farina di castagne , acqua e poco sale, ma il difficile è la cottura: niente padella, si usano i "testi", due piatti di ferro con dei lunghi manici che vanno inumiditi d'olio e poggiati sul piano della stufa a legna. Scottarsi è un gioco da ragazzi, ma ancor più facile cuocere troppo o troppo poco i necci che dovrebbero venir fuori consistenti ma leggeri, ambrati ma non carbonizzati!





mercoledì 20 novembre 2013

Anche il Führer amava Firenze...



Hitler aveva sempre sognato di vedere Firenze. Affascinato dalla ricchezza artistica della cultura toscana, approfittò del suo viaggio in Italia per ammirare quelle bellezze che aveva visto solo in fotografia: il 9 maggio 1938 giunse in visita ufficiale nella città di Dante con un treno proveniente da Roma e fu accolto trionfalmente, con tanto di banda, fasci littori e bandiere, il tutto coronato da un tripudio di fiori. Ad attenderlo c'era il Duce in persona, attorniato dai più importanti funzionari e gerarchi fascisti. 



Per l'arrivo del Führer venne istituito uno speciale Comitato dei Festeggiamenti che provvide a rimettere a nuovo ogni angolo della città, ritinteggiando facciate, ricoprendo con enormi stendardi musei e palazzi, illuminando con una serie di lampioni di ultima generazione viali e strade. 







Nel giardino di Boboli l'Opera Nazionale del Dopolavoro ricreò la magica atmosfera dei quattro principali giochi storici della Toscana: il calcio Fiorentino, la Giostra del Saracino di Arezzo, il Palio di Siena e il Gioco del Ponte di Pisa, avvalendosi di oltre 2000 figuranti.






Un lungo corteo di auto e motociclette scortò la vettura di Hitler durante tutto il tragitto che lo portò a Palazzo Pitti, a Santa Croce, in Piazza Signoria, a Palazzo Medici Riccardi e, infine, al Teatro Comunale. 

Mussolini non lo abbandonò un solo istante, facendosi ritrarre spesso in atteggiamenti amichevoli e sereni che dovevano mettere in luce l'amicizia e la cordialità fra le due nazioni alleate, forti e vittoriose. 


La giornata fu un continuo susseguirsi di emozioni e di esaltazione, ma fu alla sera che il tripudio giunse davvero all'apice: dopo una ricca cena alla quale intervennero tutti i più importanti nomi di politici ed intellettuali, Hitler si recò a teatro dove fu eseguito, in suo onore, un concerto con le musiche tratte dal Simon Boccanegra, diretto dal maestro Vittorio Gui.







Era ormai mezzanotte quando Hitler lasciò Firenze, tra le acclamazioni del popolo e le cascate scintillanti dei fuochi di artificio che lo salutarono fino alla partenza per Berlino. 


Di ben altro stampo fu la visita successiva, il 28 ottobre 1940, quando la guerra aveva ormai cominciato a segnare inesorabilmente le sorti del paese e a precipitare l'Italia in uno dei periodi più terribili della sua storia.

sabato 16 novembre 2013

Le acque chete rovinano i ponti...



Una delle commedie in vernacolo più conosciute e amate, non solo a Firenze, ma anche nel resto d'Italia è sicuramente "L'Acqua Cheta" trasformata poi in operetta con le musiche di Giuseppe Petri. 


Augusto Novelli la scrisse nel 1908 per la celebre compagnia di Andrea Niccoli che recitava al teatro Alfieri di via Pietrapiana e fu subito acclamata dal pubblico e dalla critica. La trama è molto semplice, quasi ingenua, ma più che l'intreccio della commedia, contano le atmosfere, il sapore di una Firenze d'inizio Novecento che ormai, purtroppo, non c'è proprio più.



L'azione si dipana nel quartiere di san Niccolò e vede protagonista una tipica famiglia toscana formata dal babbo, il sor Ulisse, che fa il fiaccheraio aiutato da Stinchi, dalla mamma, la sora Rosa, e dalle loro figlie Anita ed Ida. Le ragazze hanno un carattere diametralmente opposto: Anita è schietta, diretta ed ama, alla luce del sole, un falegname, Cecco, che non è ben visto dai suoi perché è solo un umile artigiano; Ida, al contrario, è schiva e sottomessa, ma in realtà, è proprio quell'acqua cheta che silenziosamente "rovina i ponti" e che darà grandi preoccupazioni a tutti. Basterà l'arrivo di un bel giovanotto, garbato ed elegante, stimato solo per come si presenta, a rovesciare le sorti e le apparenze: Ida scapperà con lui, tradendo la fiducia dei genitori, mentre Cecco e Anita, con la loro intelligente generosità, riusciranno a riportare a casa la fuggitiva. Come in tutte le belle favole, l'epilogo è lieto e sereno: le due coppie avranno la benedizione di Rosa ed Ulisse e non dovranno più nascondere il loro amore.



La morale sembra uscire da una favoletta di Esopo: non sempre le cose sono come sembrano e quelli che appaiono tanto perbenino forse hanno qualcosa da nascondere...
Dalla prima messa in scena ad oggi la commedia ha avuto innumerevoli rappresentazioni, sia nella sua versione classica che come operetta, subendo malauguratamente tante di quelle trasformazioni che l'hanno snaturata e involgarita, con battute infilate a forza per far ridere la gente o, peggio, con tagli di copione che ne hanno trasfigurato la naturale scorrevolezza.
Di fatto, ormai, di "acque Chete" ne esistano tante e con ispirazioni diverse, ma la vera ed unica è sempre quella che sgorgò dallo spirito brillante e arguto di Novelli, padre del teatro in vernacolo fiorentino.

venerdì 15 novembre 2013

Le inquietudini dell'Arno




La sera del 3 novembre del 1966 i fiorentini andarono a dormire con una grande pena nel cuore: l'Arno, dopo tante giornate di pioggia insistente, era diventato così gonfio d'acqua da far temere il peggio. E infatti, alle prime luci dell'alba del 4 novembre, il fiume, ormai superate le spallette, sommerse i ponti, invase strade e piazze, portando desolazione ovunque. 





Acqua fangosa, melma, relitti d'ogni genere entrarono, vorticando, nelle case, negli scantinati, nelle botteghe, mettendo fuori uso la corrente elettrica. I fiorentini erano atterriti, i bambini piangevano terrorizzati, i vecchi e i malati erano presi dallo sgomento di non riuscire a mettersi in salvo, ognuno cercava di recuperare quello che poteva e di salire ai piani alti per non morire annegato. Il centro storico era ormai completamente allagato e in alcuni punti il livello della piena raggiunse anche i sei metri d'altezza.


Durante la mattina e per tutto il pomeriggio l'acqua limacciosa continuò a distruggere tutto quello che incontrava nel suo cammino. Migliaia di famiglie non sapevano più dove vivere ed avevano perso ogni cosa, centinaia di officine dilaniate, musei, biblioteche, chiese sfasciate, l'alluvione non aveva certo rispetto di niente e di nessuno.

Ripercorrendo gli eventi tragici di quei giorni sembra impossibile che la città sia riuscita a risalire dall'apocalisse in cui si era improvvisamente calata. 

Una meravigliosa gara di solidarietà da parte di tutto il mondo fece il miracolo: studenti, militari, giovani di ogni ideologia ed estrazione sociale si misero al lavoro, con un'abnegazione incredibile e con immensa generosità per recuperare opere d'arte, per ripulire case, negozi, luoghi sacri e artistici, ma anche per soccorrere e confortare coloro che più avevano sofferto per la grave calamità.
Perfino il Papa, Paolo VI, si mosse da Roma per passare la notte di Natale vicino agli alluvionati, portando un messaggio di speranza e di consolazione con parole di incitamento al forte carattere fiorentino"...una tempra vibrante d'intelligenza, di coraggio, di laboriosità... sono virtù, codeste, che.... invece di fiaccare, corroborano le vostre energie e le 
moltiplicano".




D'altra parte Firenze non era nuova a queste sciagure: dal 1177 a tutto il 1761 c'erano state ben 54 alluvioni di cui almeno trenta di alto livello, senza contare quella del 3 novembre 1844 che era stata particolarmente violenta.
Di questi tremendi momenti resta una triste memoria nelle lapidi di pietra, marmo e metallo ancora presenti sulle facciate di vecchie case che ci fanno 
sapere, come tanti storici silenziosi, che l'acqua dell'Arno era arrivata, di volta in volta, a quella tale
altezza. 










Sarà anche "un fiumicel che nasce in Falterona" come diceva Dante in un Canto del Purgatorio, ma tranquillo non lo è di certo!

Una fontana fantastica, anzi due...






Il nome di via dello Sprone deriva con certezza dall'angolo acuto che si forma dall'incontro della strada con Borgo San Jacopo. Ed è proprio su questa "cantonata" che Bernardo Buontalenti volle creare la sua fontana, un grottesco ma raffinato mascherone che getta l'acqua in una vasca di marmo a forma di conchiglia. Dal bacile, grondava poi una cascatella che terminava a terra dove si raccoglieva per poter essere dissetare anche i cavalli e gli altri animali. 









L'opera risale probabilmente al 1608 quando l'Oltrarno fu ripulito e abbellito per il passaggio del corteo matrimoniale del giovanissimo Cosimo II che prese in sposa Maria Maddalena d'Austria, tant'è che in alto, proprio sopra al fauno, c'è un marmoreo stemma mediceo a testimoniare l'avvenimento.



Nell'Ottocento la fontana cominciò a mostrare i segni del tempo e fu egregiamente restaurata dall'architetto fiorentino Giuseppe del Rosso che la riportò agli antichi splendori.
Un "fratello" del mascherone buontalentiano si può ammirare in via de' Neri, modellato, nel 1619, da Chiarissimo Fancelli per ornare il Mercato del Grano. Ma, anche se apparentemente sembrano molto simili, le espressioni dei due volti sono molto diverse: quello di via dello Sprone ha l'aria imbronciata e severa mentre il suo collega di via de' Neri è sicuramente più allegro e beffardo!




Fontana di via dello Sprone


Fontana della Loggia del Grano

mercoledì 13 novembre 2013

Due gemelle diverse

Alessandro Allori - Luca Pitti davanti al suo palazzo 


L'ambizioso Luca Pitti, ricchissimo banchiere fiorentino, non voleva mai essere secondo a nessuno e tutto ciò che possedeva doveva gridare a gran voce la sua magnificenza e il suo prestigio. Così, secondo quanto riportato dal Vasari, nel 1440 chiamò il maestro Filippo Brunelleschi e gli ordinò di mettere in opera il progetto che aveva creato per palazzo Medici, scartato da Cosimo perché ritenuto "troppo sontuoso". L'architetto ideò allora un elegante anfiteatro, chiuso da tre lati, dove il palazzo dominava tutta la scena e si incastrava, quale pietra preziosa, fra due ali digradanti. 


I lavori cominciarono molti anni dopo, quando Brunelleschi era già morto, e furono portati avanti dal suo miglior allievo, il giovane Luca Fancelli. Una leggenda narra che il Pitti avrebbe preteso che le arcate delle finestre del nuovo palazzo superassero in estensione il portone di quello dei Medici e che le dimensioni dell'edificio fossero tali da poter contenere, all'interno del cortile, tutto Palazzo Strozzi. 







Inutile dire che la megalomania ha il suo prezzo e le spese per la costruzioni furono davvero pesanti da sopportare. Tutto andò bene finché le entrate continuarono a superare le uscite ma, nel 1464, i lavori si interruppero bruscamente per mancanza di fondi e il bramoso Luca Pitti dovette chinare il capo e contentarsi di ciò che gli era riuscito realizzare fino ad allora. Dopo la sua morte, per ironia della sorte, Buonaccorso Pitti , indebitato fino al collo, dovette correre ai ripari e vendere il palazzo a Eleonora di Toledo, moglie di quel Cosimo I a cui Luca aveva dato tanto filo da torcere.
Una curiosità riguarda proprio un punto preciso della facciata del palazzo: alla sinistra del portone centrale, a circa due metri dalla pavimentazione della piazza, ci sono due pietre: una lunghissima, che misura circa una decina di metri, e l'altra, al suo fianco, di appena trenta centimetri. Che significato ha questa "strana coppia" ? Nessuno lo sa con certezza, ma secondo un'antica tradizione, potrebbero simboleggiare la sconfinata maestosità di Luca Pitti in contrapposizione al misero valore dei suoi avversari, gelosi e inveleniti per la sua scalata sociale.








giovedì 7 novembre 2013

Uno strano volto







Per scoprire tutti i segreti di una città ci vogliono occhi attenti, una buona dose di curiosità e la voglia di non farsi trascinare dall'abitudine. Si cammina, senza guardarci intorno, eppure ad ogni passo c'è una nuova sorpresa, un nuovo tesoro. Per esempio, in piazza della Signoria, proprio alle spalle di 'Ercole e Caco' del Bandinelli, a destra del portone di Palazzo Vecchio, c'è un profilo inciso su una delle pietre, pochi lineamenti grafici ed essenziali che richiamano subito l'effigie di un uomo. Secondo la tradizione è stato scolpito da Michelangelo, ma non è dato sapere chi sia stato il modello a cui l'artista si è ispirato. C'è chi dice che sia un tipo che era solito disturbare il Buonarroti ogni volta che si incontravano nella piazza, tediandolo con lunghe chiacchiere noiose. Un giorno il maestro, avendo con sé scalpello e mazzuolo, ne incise il volto in una bugna del palazzo, tenendo le mani dietro la schiena per non farsi vedere dall'importuno rompiscatole, facendo finta di ascoltarlo per l'ennesima volta. 




Secondo un'altra versione sembra invece che il ritratto si riferisca ad un condannato a morte, giustiziato in piazza della Signoria, che colpì particolarmente la fantasia dello scultore tanto da immortalarlo velocemente sulla facciata.

mercoledì 6 novembre 2013

Un angelo scostumato?




Quante volte si manda qualcuno a 'quel paese' magari accompagnando le parole con un insolente 'gesto dell'ombrello'? Il "va' a pigliattelo in tasca", tanto comune quanto diffuso tra tutti fiorentini, diventa un problema se a "mandarti" è un angelo. Sì, avete capito bene, proprio un angelo! Su una formella di marmo sul portone laterale destro del Duomo che fa parte, con altre sette, della decorazione degli "Angeli dell'Apocalisse" del 1880, c'è un ricciuto giovanetto con tanto d'ali piumate, che fa quell'inequivocabile gesto. Angelo ribelle o solo un'errata interpretazione dell'opera? In realtà, è solo l'atteggiamento di una creatura stanca e stremata che si sorregge a malapena! Ma la gustosa leggenda che ha originato la diceria è così divertente che vale la pena di riportarla! Una sera angeli e cherubini si dettero appuntamento per una cenetta nel cuore di Firenze, ma quando venne il momento di pagare, nessuno, come ben si può immaginare, ne volle sapere. Tirato a sorte chi dovesse saldare il conto, la sfortuna ricadde proprio su quella povera creatura celeste che, per tutta risposta, fece quel gesto "scortese" che è rimasto imbrigliato nella pietra per ricordarci che anche gli angeli possono perdere la pazienza!





Il mistero della statua scomparsa



Giovanni Villani, nella sua 'Cronica' scrisse che la colonia romana di Florentia “sorse sotto l'ascendente del Dio Marte”. 
Quando, all'epoca di Augusto, Firenze riuscì vittoriosa su Fiesole, fu costruito un tempio in onore del dio della guerra con una bella statua di marmo che lo ritraeva a cavallo. Gli storici antichi affermavano, senz'ombra di dubbio, che il tempio si trovasse dove adesso sorge il Battistero di San Giovanni; il Villani ce lo descrive come se lo avesse visto dal vivo: "ottagonale e con l’idolo nel mezzo, coperto da una cupola forata come quella del Pantheon” e anche Dante era convinto che corrispondesse all'attuale Battistero. Seguendo invece le vicende degli scavi archeologici effettuati nella zona del Battistero risulta chiaramente che non fu edificato sopra il tempio di Marte ma sui resti di una ricca “domus” romana del I secolo d.C. in seguito trasformata in panificio, come confermarono gli scavi del 1915 con i ritrovamenti dei mosaici della casa e di un frammento di orcio da cereali e di una grande macina in pietra relativa al forno. 
Battistero di san Giovanni
Il tempio sarebbe stato invece nella zona collinare di san Lorenzo, dove ora sorge l'omonima chiesa.
Quando il Cristianesimo, per volere di Costantino, soppiantò ogni altra forma religiosa, dice sempre il Villani che "i fiorentini levarono il loro idolo". Non fu distrutto,  ma, come narra una leggenda medievale,  solo spostato  fuori dalle mura, in prossimità del Ponte Vecchio. Trascinato via, nel 1333, da una delle tante alluvioni, il monumento finì nelle acque dell'Arno dove rimase per secoli. Ma siamo veramente certi che fosse Marte? E' più probabile, invece, che si trattasse della raffigurazione del re ostrogoto Teodorico o dell'Imperatore Diocleziano che avevano migliorato le condizioni della città con svariati ammodernamenti strutturali. 




Comunque i fiorentini restarono sempre convinti che quella statua rappresentasse Marte, nonostante siano moltissime le prove che non si trattasse di lui,  soprattutto in base alle memorie storiche del  Villani che scrisse: "Gli antichi diceano e lasciarono in iscritto che, quando la statua di Marte cadesse o fosse mossa, la città di Firenze avrebbe gran pericolo o mutazione".
Probabilmente, allora,  il vero dio è ancora sepolto dal fango nei fondali dell'Arno, oppure è stato ritrovato e poi trafugato da collezionisti e archeologi. E chi può saperlo?...

martedì 5 novembre 2013

Ma quante sono queste api?



Nel bel mezzo di Piazza Santissima Annunziata, definita "la più armoniosa e perfetta del mondo", c'è il monumento equestre del granduca mediceo Ferdinando I, commissionata al Giambologna e terminata dal suo allievo Pietro Tacca, nel 1608, dopo la morte del maestro. Il bronzo con cui è stata fusa era quello dei cannoni delle galee turche vinte dall'Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano, un'istituzione nata per combattere la pirateria che infestava il mar Mediterraneo. Per ricordare la provenienza del bruno metallo, nel sottosella del cavallo venne inciso "DE METALLI RAPITI AL FERO TRACE".


La statua poggia su un basamento rettangolare di marmo bianco sul quale, dal lato che guarda la chiesa della Santissima Annunziata, campeggia l'impresa araldica del granduca, ideata dall'estroso letterato senese Scipione Bargagli: sotto al motto "Maiestate Tantum" che letteralmente significa "soltanto grazie alla sua maestà (riuscì a governare), c'è un’ape regina contornata, da cerchi concentrici e sfalsati formati da altre api. La spiegazione dell'allegoria è molto semplice: Ferdinando è il fulcro del popolo fiorentino che riesce a guidare con saggezza, proprio come la regina delle api fa con le sue operaie, in un clima reverente, ma amichevole.  





La cosa divertente di questa insegna è che rimane quasi impossibile contare il numero di questi industriosi animaletti, visto che si perde subito il filo dell'addizione e bisogna ricominciare daccapo! Ma quante sono allora? C'è chi dice 91, chi 99 o 101, fatto sta che per levarsi il dubbio non resta che andare nella piazza e mettersi a contarle... ma senza usare alcun aiuto: una leggenda vuole, infatti, che chi riesce a sapere il numero esatto avrà buona fortuna, a patto di non toccarle o indicarle con il dito.

lunedì 4 novembre 2013

I cartolari

Oggi si va in cartoleria per comprare l'occorrente per scrivere o altri articoli di cancelleria, ma nella Firenze antica i "cartolari" erano degli scrittori amanuensi, che copiavano e vendevano  i libri. Le loro botteghe erano tutte sparse nella zona della chiesa di san Firenze, comprendendo anche un tratto di via del Proconsolo. 

Il Canto dei Cartolai

Fino al Quattrocento i libri venivano trascritti da pazienti e abili copisti che impreziosivano le pagine con iniziali ornate e raffinate miniature. 



La Badia Fiorentina con i negozi al pianterreno

Nei locali bassi della badia Fiorentina, aveva il suo laboratorio Vespasiano da Bisticci, nato vicino a Rignano sull'Arno nel 1451 e morto all'Antella, da dove proveniva la sua famiglia. Qui si riunivano tutti gli umanisti del tempo a leggere testi classici, a ragionare di letteratura e a filosofare sui temi essenziali della vita.
Perfino gli stranieri che arrivavano da fuori andavano da Vespasiano per conoscere i personaggi più illustri e singolari della città.
Dopo aver rifornito intere biblioteche di uomini del calibro di Palla Strozzi, Cosimo de' Medici, Federico duca d'Urbino e Alfonso d'Aragona, orgogliosi di possedere codici scritti a mano, Vespasiano rimase quasi senza lavoro: era ormai il 1480 e l'invenzione della stampa lentamente ma inesorabilmente soppiantò il lavoro dei cartolari che da allora tramutarono la loro condizione in quella di venditori di fogli, inchiostro e penne.