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giovedì 31 dicembre 2015

Ginevra, la sposa fantasma





Nei tempi antichi, quando c'erano delle imprese da raccontare, strane, romantiche o pietose che fossero, le si mettevano in versi e si dava poi il compito ai cantastorie e ai giullari di farle entrare nell'animo della gente. Miti, narrazioni e leggende passavano così di bocca in bocca e diventavano parte della cultura popolare, spesso fondendo immaginazione e realtà per ammantare la vicenda di un alone più affascinante. Chiacchiere di dame e di garzoni, scherzi, avventure di gentiluomini e artisti, tutto diventava fertile materiale per favole e poemi, come le novelle del Boccaccio e del Sacchetti che affondano le radici su fatti realmente accaduti, abilmente poi riaggiustati per renderli più appassionanti. Una delle vicende amorose che ha varcato i confini del tempo è, senza dubbio, quella di Ginevra degli Amieri. Firenze, anno del Signore 1396. La peste era arrivata in città molti anni prima, ma ancora non si contavano le vittime che la Morte Nera continuava a falciare inesorabilmente.



 Fra le poche casate rimaste fatalmente in piedi, spiccava quella degli Amieri che aveva perso quasi tutti i suoi discendenti tranne il capostipite Bernardo e sua figlia Ginevra. La bella diciottenne, colta e intelligente, piaceva a quasi tutti i giovanotti fiorentini, ma il padre, senza chiedere il suo parere, l'aveva promessa in sposa a Francesco Agolanti,  ricco rampollo di una famiglia di commercianti.
Inutile dire, come nel miglior romanzo passionale, che la ragazza era segretamente innamorata di un altro e, per complicare le cose, il giovane, tale Antonio Rondinelli, era anche popolano e di non alto lignaggio. Ma questo matrimonio s'avea da fare e si fece. Dopo la cerimonia, con ancora l'abito bianco addosso, Ginevra ebbe un collasso e fu creduta morta. Tristemente, ma anche velocemente per il sospetto che fosse stata uccisa dalla peste, fu trasportata con il cataletto in una cripta vicino a Santa Reparata.

Durante la notte, Ginevra si svegliò dal profondo sonno e si accorse, con orrore, di essere attorniata da scheletri e cadaveri putrescenti. Con la forza della disperazione, riuscì a smuovere la pesante lastra di marmo che chiudeva l'avello e a uscire all'aperto. Non si sa come, si trascinò dapprima al palazzo del marito e poi alla casa di suo padre, chiedendo aiuto, ma tutti e due gli chiusero porte e finestre in faccia credendola una spettro in cerca di vendetta. Quasi svenuta, bussò allora al portone del Rondinelli che subito la riconobbe e, con infinite cure, le ridette salute e serenità. La notizia che Ginevra era ritornata in vita si sparse presto per tutta la città e Francesco Agolanti si diede da fare per riprendersi la moglie “resuscitata”, denunciandola addirittura al Tribunale Ecclesiastico. Convocata dal Vicario del Vescovo, Ginevra raccontò per filo e per segno la sua incredibile vicenda e anche grazie alle tante testimonianze in suo favore, fu ritenuta innocente e liberata dal vincolo che la legava al marito. Potè così finalmente congiungersi ad Antonio che mai aveva smesso d'amarla e, come cantò un ignoto rimatore, ”vissono gran tempo in festa e 'n gloria, al vostro onore è finita l'istoria”.
Ora, veniamo a noi: sarà tutto vero o è pura fantasia? Molti scrittori del passato si sono messi ad analizzare il poema punto per punto, riuscendo perfino ad individuare il vicoletto da dove era passato il corteo funebre, al fianco della Misericordia: ora si chiama via del Campanile, ma sembra che il nome primitivo fosse via della Morta, in ricordo del triste trasporto del corpo di Ginevra verso la tomba. E ancora, qualcuno aveva rintracciato la lapide non murata vicina al Duomo che per molti secoli recava le iniziali G.A., poi cancellate dal viavai della gente e dai restauri del lastricato che si sono succeduti negli anni.
Luogo dove presumibilmente era la tomba di Ginevra


Il solito avvocato del diavolo mette, però, tutto in discussione soprattutto soffermandosi sulla facilità con cui la Curia Arcivescovile avrebbe reso nullo il primo matrimonio e autorizzato tranquillamente il secondo, come nulla fosse, specialmente in un'epoca in cui per chiudere una storia si ricorreva più facilmente all'uxoricidio che alla Chiesa...

Comunque sia andata, in questo mondo così sterile di sentimenti, è bello credere ad una storia d'amore che è riuscita a sconfiggere persino la morte e ad arrivare immutata fino a noi, nonostante l'incedere del tempo.

lunedì 21 dicembre 2015

I segreti di Venere





Quando nell'Ottocento le esplorazioni archeologiche si intensificarono per ricercare testimonianze del mondo ellenistico, non furono poche le sorprese che stupirono gli studiosi. Quasi tutte le statue avevano, nascoste dalle pieghe degli abiti e dai lineamenti dei volti, tracce del colore che aveva abbellito le labbra e le guance, esaltata la trama delle vesti, acceso di vita gli occhi e fatti risplendere i capelli. La scoperta fu travolgente e sensazionale, ma non tutti l'accolsero favorevolmente perché, fino ad allora, il mito della Grecia classica si era sempre incarnato nell'aspetto candido e levigato di sculture e bassorilievi ed era difficile digerire una notizia così rivoluzionaria. Ma i fatti parlavano chiaro e non si potevano certo ignorare, anche se i fedelissimi al “bianco assoluto” fecero di tutto per non cedere alle nuove rivelazioni, arrivando persino a suggerire di ricolorare le statue con una bella verniciata purificatrice. 

La Venere pudica degli Uffizi


Anche la Venere dei Medici del I secolo avanti Cristo, regina incontrastata degli Uffizi, non era pallida come appare adesso: Nel 2012, grazie ai finanziamenti della fondazione non-profit Friends of Florence, un accurato restauro ha messo in luce il vero aspetto della splendida statua, simbolo della bellezza antica nel periodo neoclassico, definita dal critico d'arte inglese John Ruskin “una delle più pure ed elevate incarnazioni della donna mai concepite”.


La bocca rossa, la chioma solcata d'oro fino, i fori ai lobi delle orecchie per adornarla con preziosi monili la facevano assomigliare ad una vera donna, altro che l'elegante ma fredda immagine che vediamo oggi! I turisti del Settecento la ricordavano, nei loro diari di viaggio, con ancora i capelli leggermente indorati, un'altra viva testimonianza che la bella dea era nata ben diversa da com'era poi diventata. Ma, a causa delle tante vicende collezionistiche che l'hanno vista protagonista, non ultimo il ratto da parte di Napoleone, e in seguito a delle vistose lisciature del marmo, il colore si è definitivamente spento e solo oggi, con strumenti d'indagine sempre più avanzati, si è potuto capire come appariva in tutta la sua brillante solarità. Dove non arriva l'occhio, entra in campo la scienza che riesce a rivelare segreti preziosi per restituirci ogni opera così come era uscita dalle mani dei grandi artisti.



Prove di colore su calchi in gesso

Prove di colore su calchi in gesso
Prove di colore su calchi in gesso






mercoledì 9 dicembre 2015

Battaglia navale? Non direi proprio!

Il “bel San Giovanni di Dante” è una delle chiese più antiche di Firenze. La data della costruzione non è certa, ma si ritiene attendibile che sia iniziata nel 1059, quando il Battistero fu consacrato da papa Nicola II, nel momento in cui fu posta la prima pietra. Nell'anno 1150, come ci racconta il Villani nella sua “Nuova Cronica”, fu collocata la lanterna e nel 1202 fu aggiunta l'abside rettangolare, che nel linguaggio popolare venne chiamata “scarsella” perché ricordava vagamente la forma della borsa di cuoio che i signori medievali si allacciavano alla cintura.

A lato della tribuna, perfettamente incastonato fra i pregevoli marmi bianchi di Carrara e quelli verdi di Prato, appare un bassorilievo assai difficile da decifrare perché consumato dal logorio dei secoli. I fiorentini lo conoscono come “La battaglia navale”, forse perché già anticamente veniva chiamato così, almeno dal 1700, periodo in cui il Richa scrisse nelle “Notizie Istoriche delle Chiese Fiorentine” di: “ … un basso rilievo in marmo lungo due braccia rappresentante un combattimento navale...”. Si tratta, quasi certamente, di un sarcofago d'epoca paleocristiana rinvenuto nella zona, visto che alla fine dell'Ottocento, scavando sotto al Battistero, vennero alla luce i resti di alcune domus romane con splendidi pavimenti a mosaico che in un primo momento furono scambiate per impianti termali.



Esaminando con cura quel resta del pregevole fregio, costituito da due pezzi riassemblati insieme, si ha una sorpresa che rovescia completamente la convinzione che si tratti di un combattimento in mare aperto. All'interno di una guarnizione ondulata si levano alcune figure, purtroppo molto sciupate, che animano due diverse scene: nella destra , un contadino porta l'uva ai vendemmiatori che la pestano in una conca bassa e allungata, mentre più a sinistra alcuni garzoni sono intenti a caricare e scaricare dei sacchi verso un'imbarcazione di foggia romana, quella che aveva dato adito all'errata comprensione dell'opera. La lettura più verosimile, allora, sembra essere quella legata all'attività svolta dal defunto a cui era destinato il sepolcro, presumibilmente un mercante che si era arricchito con il commercio del vino e che voleva essere ricordato per il suo lavoro operoso. Ma resta sempre da chiarire il perché il sarcofago sia stato inserito nell'architettura del Battistero. Attraverso un'analisi iconografica dei componenti del bassorilievo, forse, se ne può capire la ragione: il vino, frutto della terra e del lavoro dell'uomo, è il simbolo cattolico del sangue di Cristo, mentre la barca è il traghetto che permette alle anime, liberate dal corpo, di raggiungere il Paradiso passando dalla riva dei viventi a quella dei morti. Perciò, la composizione, sia pur formata da parti frammentarie, si unisce, non solo stilisticamente, ma anche idealmente al Battistero, creando una sublime armonia di sacralità. Ho tentato, con non poche difficoltà e scarso successo, di riprodurre in un disegno l'aspetto che doveva avere il bassorilievo originale: si possono notare più distintamente tutti i personaggi e i loro movimenti, sgombrando così una volta per tutte ogni possibile attinenza con la famosa battaglia navale con cui è stato ingiustamente battezzato per troppo tempo!


Riproduzione, a matita, dello schema originale del bassorilievo




lunedì 30 novembre 2015

A tavola con il Magnifico Lorenzo


Lorenzo de Medici lasciò un segno indelebile nella storia fiorentina, tanto da meritarsi il famoso appellativo di Magnifico con cui viene comunemente ricordato da tutti. A dire il vero, Magnifico era il titolo consueto per designare i Messeri a capo della Repubblica Fiorentina, ma lui straordinario lo era per davvero! Estroverso e brillante, amava la vita in ogni sua sfaccettatura, non ultima la buona cucina di cui apprezzava soprattutto gli accostamenti audaci, tipici dell'arte culinaria rinascimentale. Per scoprire cosa prediligesse il nostro Lorenzo, basta curiosare nei suoi Canti Carnescialeschi e nella Neccia da Barberino dove fa una lunga lista dei suoi cibi preferiti che si potevano trovare nelle osterie fiorentine: schiacciate, migliacci, aringhe, cosce di rana fritte, salsicce, fave arrosto ed anche il formaggio, soprattutto il pecorino di Pienza e il “cacio marzolino”. 

Ma sulla ricca mensa nel palazzo di via Larga le portate erano molto più elaborate e abbondanti, con la carne sempre al primo primo posto insaporita con abbondanti spezie e annaffiata dal buon vino toscano per mantenere alto il morale. La lista delle vivande era sempre molto abbondante e, di solito, comprendeva " un primo servizio di credenza ", ossia degli antipasti, " il servizio di cucina", i primi piatti, "il terzo servizio di credenza", il secondo, ed infine dolci e frutta, “ultimo servizio di credenza".



Memorabile il menù del pranzo di nozze per il suo matrimonio con Clarice Orsini, nel 1469: «erano piattagli cinquanta grandi, che ciascuno faceva due taglieri, e ogni tagliere era fra due col suo tagliatore. Le vivande furono accomodate a nozze più tosto che a conviti splendidissimi; per questo credo che facessi de industria, per dare esempio agli altri e servare quella modestia e mediocrità che si richiede nelle nozze, però che non diè mai più che un arrosto. La mattina prima il morsaletto, poi un lesso, poi un arrosto, poi cialdoni e marzapane e mandorle e pinocchi confetti: poi le confettiere con pinocchiati e zuccata confetta. La sera gelatina, un arrosto, frittellette, cialdoni e mandorle e le confetterie. Il martedì mattina in scambio del lesso, erbolati col zucchero in su taglieri: vini; malvagie, trebbiano, e vermiglio ottimo».





















Ma sembra che Lorenzo fosse non solo un buongustaio, ma anche un bravo cuoco tanto che nel suo "Canto de' Cialdonai" ci insegna addirittura a fare i cialdoni.
"Metti nel vaso acqua e farina, quando hai menato, poi vi si getta quel ch'è dolce e bianco zucchero: fatto l'intriso, poi col dito assaggia, se ti par buono le forme (i testi) al fuoco poni, scaldale bene e quando l'intriso nelle forme metti e senti frigger, tieni i ferri stretti. Quando ti par è sia fatto abbastanza, apri le forme e cavane è cialdoni e 'l ripiegarli allor facile riesce caldi: e 'n panno bianco li riponi".










E per digerire tutto questo ben di Dio sicuramente il signore di Firenze avrà bevuto l'Acquarosa di Leonardo da Vinci , fedelmente trascritta nel
Codice Atlantico al foglio 482 recto (ex 177 recto-a): acqua, zucchero e limone colati in tela bianca, da servire fresca, toccasana per gli stomachi provati dal troppo mangiare!

lunedì 23 novembre 2015

Che ore sono?



Non tutti gli orologi funzionano allo stesso modo, ce ne sono alcuni che camminano all'indietro come i gamberi. Non si tratta del meccanismo che si è guastato e delle lancette impazzite, ma solo di un diverso modo di calcolare il tempo. A Firenze, ad esempio, fino al 1750, vigeva l'Hora Italica che misurava il giorno da un tramonto all'altro, un metodo che risale addirittura all'epoca di Giulio Cesare che nel 46 a.C. affidò a Sosigene di Alessandria l'elaborazione di un nuovo calendario basato sul ciclo delle stagioni. L'orologio “giuliano” doveva quindi essere regolato, nell'arco dell'anno, in maniera da tenere sempre come ultima ora del giorno quella del calare del sole perché, altrimenti, i conti non tornavano più. L'unico vero vantaggio di questo singolare sistema era poter sapere con esattezza quante ore mancavano all'imbrunire, il momento in cui operai e contadini potevano tornarsene a casa dopo una faticosa giornata di lavoro.
Anche la Cattedrale di Santa Maria del Fiore ebbe il suo elaborato congegno a partire dal 1443, affidandone il meccanismo all'orologiaio Angelo di Niccolò e la decorazione al fantasioso pittore Paolo Uccello, uno dei maggiori artisti dell'epoca.
Vasari, nelle sue Vite, ci racconta che “... fece Paolo, di colorito, la sfera dell’ore sopra la porta principale dentro la Chiesa, con quattro teste ne’ canti colorite in fresco” . 
L'affresco, che misura quasi sette metri di diametro, è diviso in 24 formelle bianche intorno ad un cerchio scuro dove ruota la lancetta dorata, ognuna delle quali è contrassegnata da un numero romano, e il tutto è inscritto in un grande quadrato che reca ad ogni angolo un volto d'uomo. Le facce, smagrite e allungate, sono dipinte con ampi chiaroscuri che ne evidenziano i tratti plastici, con gli occhi che guardano in varie direzioni. Alcuni studiosi li hanno identificati con i Quattro Evangelisti, altri con dei profeti, ma non esiste nessun documento che lasci intendere qualcosa di preciso, solo il pagamento registrato al 24 febbraio 1443 “per quattro teste”.


A metà del 1500 l'orologio cominciò a dare problemi ed ebbe bisogno di essere riparato, ma anche nei secoli seguenti numerosi furono gli interventi degli orologiai, non ultima la trasformazione del macchinario con un movimento a pendolo. Nonostante nel 1761 fosse ripristinato il meccanismo originale a contrappesi, il quadrante fu comunque modificato da 24 a 12 ore, visto che era entrata in vigore l'ora alla francese, e anche la lancetta venne sostituita. Fortunatamente, una quarantina d'anni fa, un provvidenziale restauro ha sanato l'affresco e riportato l'orologio alla sua Hora Italica. Ma dopo quasi sei secoli di intenso lavoro, il congegno ha avuto nuovamente bisogno di essere rimesso a nuovo per tutta una serie di guasti e difetti dovuti all’usura del tempo. L’Opera di Santa Maria del Fiore ha affidato l'incarico a due dei massimi esperti del settore, i professori Andrea Palmieri e Ugo Pancani, grazie alla sponsorizzazione della maison di alta orologeria sportiva Officine Panerai.
Finalmente l'orologio del Duomo può continuare a stupire con la sua bizzarra lancetta che corre dalle tenebre al ritorno del sole.




















venerdì 13 novembre 2015

Camilla Martelli, la granduchessa mancata.


Cosimo I
Il Granduca Cosimo I, dopo la morte dell'adorata Eleonora di Toledo, non fu più lo stesso. Nonostante fosse ancora abbastanza giovane, non si sentiva più forte e aitante come un tempo e invano cercava di colmare il gran vuoto lasciato dalla moglie con avventurette passionali, malviste dai figli e dalle nuore, la più nota delle quali resta quella con Leonora degli Albizi da cui ebbe un figlio, Giovanni. Precocemente consumato, sempre più irascibile e tormentato dalla gotta e da problemi circolatori, Cosimo dovette mettere fine a quel suo continuo volare di fiore in fiore. Quando nel 1567 conobbe Camilla Martelli capì subito che era quella la donna che gli ci voleva per fermarsi e, dopo appena un anno di fidanzamento segreto e una bimba in arrivo, convolò a giuste nozze, più per mettere a tacere le chiacchiere che per un reale bisogno esistenziale. “Vo' cavare lei e me di peccato” scriveva Cosimo al furibondo figlio Francesco “e chiarire al mondo ch'è mia moglie. Lo fo per la quiete dell'anima e del corpo...”.

Camilla Martelli
Camilla, di soave bellezza e di cortesi maniere, sembrava essere nata apposta per lenire le pene del Granduca e ammorbidire il suo caratteraccio da despota. Era servizievole, affezionata, gentile, ma soprattutto incurante dei molti anni che correvano fra lei e il marito. C'era poi la piccola Virginia a stringere ancora di più quel legame e, chiuso ad ogni rimprovero della sua famiglia, Cosimo continuò ad andare dritto per la sua strada, con la giovane favorita al fianco. Ma Camilla, dopo qualche anno di serena convivenza, cominciò a diventare insofferente e collerica. Forse aveva agognato un futuro da protagonista, ma il marito la costringeva a vivere nell'ombra per non alimentare le antipatie della famiglia Medici, tenendola distante da ogni festa e celebrazione ufficiale. Purtroppo, nonostante l'atto di nozze fosse più che regolare, nessuno la considerava una vera e propria moglie a tutti gli effetti, ma solo una concubina che si era dovuta sposare per chiudere la bocca ai pettegolezzi, particolarmente quella di papa Pio V che aveva espressamente imposto a Cosimo di regolarizzare la sua posizione.
Villa di Poggio a Caiano

Per trovare un po' di riparo dalle tempeste che sconquassavano le loro vite, i coniugi si ritiravano spesso nella villa di Poggio a Caiano, un luogo di armonia e di serenità che più volte aveva rinfrancato l'anima stanca di Lorenzo il Magnifico. Ma anche lì Camilla, almeno a quello che riportavano i maligni servitori, non era lieta., sempre tesa e adirata con il compagno al quale rimproverava di essere assente, debole e musone. Altri testimoni, forse più compassionevoli o di parte, dipingevano invece una scena idilliaca con un continuo susseguirsi di premure e tenerezze tali da non gettare la minima ombra sulla loro felicità.

Il matrimonio di Cosimo e Camilla - Affresco di Casa Martelli


Probabilmente, come sempre, la verità sta nel mezzo. La giovane donna non poteva certo gioire di una vita così tetra e faticosa, disseminata di continue crisi del Granduca, vecchio leone addomesticato dalla malattia, ma ancora pieno di rabbia nel non potere più fare tutto a modo suo. Agli inizi del 1574 le condizioni di Cosimo peggiorarono ulteriormente, divenne quasi muto ed infermo, e nell'aprile dello stesso anno il principe rese l'anima a Dio. Camilla, rimasta sola e senza appoggio, dovette sottostare agli ordini di Francesco I che fece rinchiudere la matrigna nel monastero delle Murate, curata dalle tacite suore che, come lei, passavano la loro giornata “sepolte vive” nella clausura. Ma tante erano le intemperanze dell'indocile ventinovenne, che furono proprio le monache a chiedere di lasciarla andare altrove e fu così trasferita nel convento agostiniano di santa Monica, vicino alla chiesa del Carmine. Nuova casa, vecchio putiferio perché anche qui la Martelli dava in continue escandescenze, urlando notte e giorno che voleva tornare libera per potersi risposare e riscattare la sua infelice esistenza da eterna esiliata.. Finalmente, alla morte del nemico Francesco, Ferdinando I le permise di andare a vivere nella villa di Lappeggi, in aperta campagna. Tutto andò bene per i primi tempi, poi ricominciò il solito finimondo: grida, insulti, nevrosi di ogni genere e poi una follia definitiva, ma così grave e potente da doverla rinchiudere di nuovo in Santa Monica dove si spense, a quasi novant'anni, nella dissennata convinzione di essere stata una delle più amate granduchesse di Firenze.

martedì 3 novembre 2015

L'antica Compagnia del Paiolo




Giovanfrancesco Rustici, valente scultore e pittore del Rinascimento fiorentino, era un uomo eclettico, dalla creatività vivace e inesauribile che riversava non solo nelle sue opere ma anche nella vita di tutti i giorni. Basti pensare che, nel 1512, insieme ad altri undici artisti e poeti, fra i quali Michelangelo, Leonardo da Vinci, Andrea del Sarto, Botticelli, fondò “La compagnia del Paiolo” il cui intento era di sposare l'arte con il cibo attraverso manicaretti scenografici e altrettanto fantastiche tavole imbandite.
Già la scelta del nome parlerebbe da sola, ma per meglio capire lo spirito che animava l'allegro cenacolo leggiamo le parole che lo storico Giuseppe Conti scrisse nel suo libro “Aneddoti e fatti della Storia Fiorentina”: “ … Alle cene ed ai passatempi ciascuno dei dodici componenti poteva condurre fino a quattro persone; ed ognuno aveva l'obbligo di portarsi una cena di sua invenzione; e se si trovava che due avessero avuto lo stesso pensiero, eran condannati ad una pena a piacere del Signore, che era il capo. Questi raccoglieva tutte le cene portate e le distribuiva a suo talento. Appena costituita la Compagnia del Paiuolo, Giovan Francesco Rustici diede una cena ai compagni; e per giustificarne maggiormente il titolo, fece portare nella stanza un tino, che per mezzo di ferri e staffe attaccò per un gran manico al soffitto; e di fuori lo accomodò benissimo con tele e pitture, che rendevan proprio l'idea di un enorme Paiuolo. 


I compagni appena arrivati sulla soglia rimasero sorpresi ed applaudirono a questa bizzarra trovata; ed entrarono ridendo come matti nel tino, dove tutt'intorno c'erano i sedili e nel mezzo la tavola. Lassù dal soffitto, come attaccata al manico, pendeva una bella lumiera, che illuminava l'interno del paiuolo. Quando furono tutti a posto, la tavola si aprì e comparve un albero con molti rami ai quali erano ingegnosamente appesi due piatti colle pietanze per ciascuno invitato. L'albero spariva quando le prime vivande eran finite, e ricompariva via via con altre. Attorno al paiuolo vi erano i serventi, che mescevano preziosissimi vini...".

Di Andrea del Sarto, in particolare, resta famoso un tempio, ispirato al Battistero di Firenze, “ma posto sopra colonne; il pavimento era un grandissimo piatto di gelatina con spartimenti di varii colori di musaico; le colonne, che parevano di porfido, erano grandi e grossi salsicciotti, le base et i capitegli erano di cacio parmigiano, i cornicioni di paste di zuccheri e la tribuna era di quarti di marzapane, nel mezzo era posto un leggio da coro fatto di vitella fredda con un libro di lasagne che aveva le lettere e le note da cantare di granella di pepe e quelli che cantavano al leggio erano tordi cotti col becco aperto e ritti con certe camiciuole a uso di cotte, fatte di rete di porco sottile, e dietro a questi per contrabasso erano due pippioni grossi, con sei ortolani che facevano il sovrano.”.
Il Vasari, nelle sue “Vite” ci racconta che la Compagnia del Paiolo non ebbe però una gran durata, visto che alla fine del Cinquecento la brigata dei cuochi-artisti si era già sciolta. Passarono più di quattrocento anni apparentemente senza attività ma il paiolo fiorentino, che sembrava ormai vuoto e senza senso, continuò a sobbollire silenziosamente e il 18 febbraio 1950 un'altra cerchia di artisti, tra cui spicca il nome di Arnaldo Miniati, che ricalcava le orme di quell'antica del Rustici, presentò al commissariato di pubblica sicurezza di via Sant’Antonino uno Statuto della Compagnia del Paiolo nuovo di zecca che cominciava così: “La Compagnia del Paiolo che oggi sorge a vita, intende promuovere e alimentare un’atmosfera artistica culturale degna delle tradizioni fiorentine” e concludeva, con il tipico spirito arguto nato sotto al Cupolone:

«Gli artigliati del Paiolo voglion questo e questo solo
che chi ha ingegno lo riveli e chi è bischero si celi».

domenica 25 ottobre 2015

Il corridoio segreto delle Oblate

Monna Tessa nacque a Firenze intorno al 1250 da una famiglia di umili origini e fin da giovane, nonostante si fosse maritata con un tale Tute di professione bastaio, andò a lavorare come governante per i Portinari, ricca famiglia di mercanti fiorentini da cui sbocciò la candida Beatrice, vaghissima fanciulla amata da Dante. Affascinata dalla spiritualità di San Francesco, suo contemporaneo, si dedicò anima e corpo alla cura dei malati e dei poveri tanto che riuscì a smuovere persino il cuore del suo padrone, Folco che nel 1285 donò una somma notevole per fondare l'Ospedale di Santa Maria Nuova, inaugurato solennemente nel 1288. Intorno alla pia figura di Tessa si strinsero ben presto altre donne, tutte appartenenti alla nobiltà fiorentina, che animate dai suoi stessi valori decisero di dedicare la loro vita a Cristo nel servizio dei bisognosi e presero il nome di Oblate, dal latino “oblatum” che significa appunto totale offerta di sé.


Il loro servizio all'interno dell'Ospedale obbediva ad un “Regolamento” , redatto definitivamente nel 1301, nel quale erano stabilite tutte le loro mansioni: pulizie delle camere, rammendo e cucito della biancheria dei malati, assistenza infermieristica e preparazione delle vivande in base alle malattie dei ricoverati. All'epoca della peste del 1348 lo Spedale contava già due padiglioni, uno maschile vicino a Sant'Egidio e uno femminile su via delle Pappe, ora via Portinari, nome curioso che alludeva alle minestrine somministrate sia agli infermi che ai poveri che si assiepavano numerosi con la loro ciotola di legno ad aspettare gli avanzi delle corsie.



Le Oblate non erano suore e non avevano quindi obbedienza a nessun voto, almeno fino al 1952 quando la Santa Sede le riconoscerà ufficialmente come Congregazione, ma vivevano in clausura, in clima di totale austerità. Il 29 dicembre 1625, a salvaguardia della loro vita riservata, venne addirittura inaugurato un passaggio sotterraneo che univa l'ospedale al convento, ancora oggi segnalato dalle griglie d'ottone e marmo bianco visibili sul selciato della piazza che davano luce al “corridore”.


Un'antica carta del 1700 riporta minuziosamente la via segreta delle Oblate: da una porta sul cortile dell'ospedale con il monumento al conte Galli Tassi si entra in una prima stanzetta oscura da cui inizia una scala di pietra che, scendendo, si ferma davanti ad una vecchia porta sulla quale troneggia un dipinto gravemente compromesso ma che, sicuramente, doveva essere a carattere religioso. Basta varcare la soglia e la galleria appare: alta più di tre metri, con la pavimentazione in mattoni consunti e le mura ammuffite e scrostate dal passare dei secoli. Unico conforto in tanto triste grigiore, è la luce flebile che filtra dalle griglie sul soffitto. Ad un tratto il tunnel si piega ad angolo retto e prosegue per un lungo tratto, ma, improvvisamente, muore in un muro che chiude il passaggio al vecchio convento. Sembra tutto finito eppure, nel silenzio e nell'oscurità, resta ancora l'eco dell'umile andirivieni delle pie donne di Santa Maria Nuova che hanno donato il loro cuore e le loro operose mani senza mai risparmiarsi.

lunedì 19 ottobre 2015

Una passeggiata alle Cascine del Riccio

Quando a Firenze si parla delle Cascine non importa dare tante spiegazioni perché tutti conoscono cosa sono e dove si trovano. Ma se alla parole “cascine” si aggiunge “del riccio” ecco che più di un fiorentino non sa di cosa si stia parlando.




Le Cascine del Riccio è un borgo antichissimo che si trova al crocevia di tre comuni, Firenze, Impruneta e Bagno a Ripoli, ai piedi delle Cave di Monteripaldi attive già dal 1330. 

Le prime notizie storiche dell'abitato risalgono al 1312 quando Enrico VII di Lussemburgo, nel tentativo di aiutare i Bianchi, cinse d'assedio Firenze, accampandosi sul torrente Ema che getta le sue acque nel più ben noto fiume Greve. Fu proprio a quell'epoca che la ricca e potente famiglia Bardi, proprietaria di una lussuosa villa in via delle Cinque Vie e patrona di Monteripaldi, dette asilo ad un gruppo di popolani sfollati, proteggendoli durante l'invasione delle truppe imperiali. Qualche anno dopo, ai Bardi, subentrarono i Ricci, originari di Prato, che possedevano diverse cascine per la produzione del latte nella zona di Pozzolatico di cui a testimonianza ancora resta, in via San Michele a Monteripaldi, un elegante palazzo dalla facciata cinquecentesca nato intorno ad una possente torre medievale che domina la valle.





Un documento risalente al 1363 riporta che erano più di dodici le famiglie residenti nella zona per un totale di una quarantina di persone, tutti dediti al lavoro dei campi. Ma Il vero e proprio borgo detto "del Riccio" nacque dagli scalpellini delle cave di Monteripaldi che costruirono le loro case sulla sponda destra dell'Ema intorno ad un ponte medievale ad arcate battezzato "Iozzi" a causa degli orci (osoli) imprunetani che venivano trasportati verso Firenze proprio attraverso quell'antico passaggio. 



La cava, che forniva preziosa pietraforte per la lastricatura delle strade fiorentine e la costruzione dei più bei palazzi e chiese della città, fra cui il Bargello, Santa Croce e Santa Maria Novella, venne chiusa nell'Ottocento e gran parte di coloro che vi lavoravano dovette trovarsi una nuova occupazione, tornando a fare il contadino nei poderi o improvvisandosi lavandaio, in concorrenza con la vicina Grassina, "paese delle lavandaie", che aveva l'onore di ricevere i capi più fini e preziosi dalle famiglie nobili e benestanti di Firenze. Durante la Seconda Guerra Mondiale il ponte Iozzi fu fatto saltare in aria dai Tedeschi in ritirata, ma subito le forze alleate lo ricostruirono in poche ore con un'energia incredibile, anche se oggi è stato sostituito da una struttura in cemento armato che niente ha a che fare con quello medievale.


Anche se gli iozzi dei catinai non ci passano più, il nome non è mai mutato nel tempo e ha battezzato anche un tratto della breve strada che si dipana sul confine dell'Impruneta.

mercoledì 7 ottobre 2015

Un matrimonio da favola


Oggi va di gran moda avere il proprio “wedding planner” che pensi ad organizzare il matrimonio in ogni minimo dettaglio, ma già nei tempi antichi nobili e aristocratici  ponevano i loro desideri nelle mani esperte di un maestro di casa che aveva l'arduo compito di non lasciare nulla al caso. Una delle feste nuziali più sontuose e fantastiche del passato fu senza dubbio quella  di Maria de' Medici, figlia di Francesco I e di Giovanna d'Austria e nipote del granduca Ferdinando I, con Enrico IV re di Francia. Palazzo Vecchio 5 ottobre 1600 :  va in scena  uno spettacolo indimenticabile con la regia del grande Bernardo Buontalenti che, come sempre, non sbagliava mai un colpo. La cronaca della serata venne invece affidata a Michelangelo Buonarroti il Giovane che stilò secondo l'uso, una  puntuale “Descrizione”  che ci fa rivivere, passo per passo, tutta la spettacolare atmosfera della serata. Nella sala, rischiarata da “infiniti lumi” , un'enorme credenza rivestita di metallo prezioso a forma di giglio di Jacopo Ligozzi per presentare ben duemila pezzi del tesoro mediceo e la tavola degli sposi adorna di così tante prelibatezze e meraviglie da far rimanere a bocca aperta anche il più esigente degli invitati. 



Sulla candida tovaglia di lino finissimo ecco apparire una grandiosa scultura fatta di tovaglioli inamidati, piegati a spina di pesce, con due querce dai rami fronzuti ricoperti di foglie bianche e ghiande d'argento e il tronco fasciato d'edera di tela increspata. E ai piedi degli alberi, scene di caccia con orsi, cervi, cinghiali e perfino un elefante e un rinoceronte.


Poi un corteo di statue mitologiche, forze d’Ercole, uccisioni di leoni e di tori, eroi, mostri, dee, architetture d'ogni genere ed anche Enrico IV a cavallo di zucchero “sodo” cesellate da artisti del calibro di Giambologna, Ligozzi e Cigoli. Per l'occasione, erano stati realizzati anche braccialetti, spille e collane di pasta zuccherina per le trecento dame invitate al matrimonio che forse, alla fine della cena, avranno fatto le veci del dolce! A far da cornice a questa meraviglia, doppi cori, balli, suoni e un Dialogo cantato da Giunone e Minerva con musica di Emilio de' Cavalieri, purtroppo perduta,  su versi di Giovan Battista Guarini.




Ma vogliamo parlare del menù? Un centinaio di portate più o meno elaborate studiate dai cuochi reali e presentate da centinaia di paggi:


24 piatti di freddo: ...Insalate lavorate in bacini... Fragole... Castelli fatti di salame...Fortezze piene d'uccelleti vivi … Prosciutto sfilato a foggia di un gallo... 
Primo servito freddo: ...Fagiani a lanterna... Bianco magnare in fette, Torta verde alla milanese...
Secondo servito caldo: ...Pasticcio a triangoli di carne battuta... Porchette ripiene... Crostata di vitella, Pasticcio ovato d’oglia potrida, Stame o coturnice alla franzese... Paste fatte con le arme del Re e della Regina... 
Di cucina per dare credenza con il freddo: ...Torta di bocca di dama... Ciambellette... Latte mele in bacini, Pere cotogne in gelo, Crostata di cedro..
Formaggi e frutta: ...Marzolino, Ravaggiuoli, Cialdoni, Pesche in vino, Pere, Uve... Carciofi, Sedani...




Chissà come avranno poi fatto gli invitati a tornare, il giorno dopo,  ad assistere all'Euridice a Palazzo Pitti...



Dal 10 marzo al 7 giugno 2015, la Galleria Palatina di Palazzo Pitti, con il patrocinio di Expo Milano 2015, ha ospitato Dolci trionfi e finissime piegature, una mostra  sulla riproduzione di alcune di quelle memoriali sculture in zucchero, oggi dovute alla sapiente manualità della Fonderia a Strada in Chianti  e sui tovaglioli usati per l’apparecchiatura del banchetto,  realizzate dal maestro Joan Sallas, studiando rigorosamente  i rari documenti dell'Archivio di Stato di Firenze.

venerdì 4 settembre 2015

Non facciamo le bizze!




Via delle Pinzochere, che si snoda proprio accanto alla Basilica di Santa Croce, deve il suo nome curioso al colore del saio francescano antico che non era marrone come adesso, ma grigio. San Francesco stesso raccomandava che gli abiti dovevano avere una tonalità neutra come “il vestito delle lodole”, sobrio e modesto “nella foggia e nel colore” perché i religiosi non dovevano certo pensare a farsi belli ma ricalcare nella semplicità l'essenza del creato. Questa particolare sfumatura si otteneva tessendo insieme due diverse lane, una bianco naturale ed una nera, che unite davano vita al famoso “bizzo” o “pinzo”, un bigio marmorizzato simile alle penne delle allodole. A Firenze, le donne che facevano parte del Terz'ordine francescano, indossavano abiti di quella particolare colorazione tant'è che, proprio a causa del loro saio, furono ribattezzate “bizzochere” o “pinzochere”.
Una Pinzochera di Santa Croce



Erano donne di ogni tipo: ex prostitute, vedove, signorine di buona famiglia o di basso ceto, ma tutte avevano in comune il fatto che non potevano maritarsi e metter su famiglia e per questo erano quasi sempre agitate e bisbetiche. Deriva proprio da loro il modo di dire “fare le bizze” che indica un comportamento capriccioso e isterico come appunto si conveniva a delle zitelle insoddisfatte... Il principale scopo delle Pinzochere, che abitavano nel convento di Santa Elisabetta del Capitolo, in via san Giuseppe, era quello della carità cristiana e di tenere pulita e ordinata la chiesa di Santa Croce entrando, prima del sorgere del sole, attraverso un passaggio laterale sul fianco settentrionale della basilica.
Fino al Cinquecento le penitenti continuarono ad usare la porta ma Cosimo I , improvvisamente, decise di chiuderla dopo che gli erano arrivati dei pettegolezzi maliziosi: l'andirivieni delle ragazze, specialmente nelle ore tarde, aveva fatto nascere la convinzione che si incontrassero con i frati del monastero e il granduca, che osteggiava apertamente le compagnie religiose, prese la palla al balzo per cacciarle via. In realtà queste notizie boccaccesche erano solo frutto della fantasia popolare che non perdeva occasione di inventarsi nuove storie di cui sparlare, anche perché sulle Pinzochere e le altre monache vegliavano degli speciali “Ufficiali di notte e dei monasteri” che dovevano vigilare sulla condotta delle donne dedicate a Dio e avrebbero impedito quindi ogni strano comportamento.
Il sottopassaggio segreto, ipotizzato dai benpensanti dell'epoca, non è mai esistito e non se ne è trovato traccia nei secoli. Resta invece una labile traccia della porta, ormai murata e seppellita dietro un sepolcro, unica testimonianza del muto e devoto lavoro delle Pinzochere ormai dimenticate da tutti.

lunedì 24 agosto 2015

Il satiro rubato

Raffaello Borghini, commediografo e poeta fiorentino del Cinquecento, quando descrisse la Fontana del Nettuno di Piazza della Signoria ne fece un ritratto così vivace tanto da sembrare d'esser lì a rimirarla: “Nettuno è alto braccia dieci, e ha fra le gambe tre Tritoni di marmo, posando sopra una gran conca marina, che gli serve per carro, a cui sono in atto di tirarla quattro cavalli. (…) Il gran vaso, in cui l'acqua cristallina (che per molti zampilli salendo in aria ricade), è fatto a otto facce di marmo mistio (…) con molte cose marine (…) e quattro statue di metallo più grandi del naturale, due femmine, figurate per Teti e per Dori, e due maschi, rappresentati due dei marini”. 

E ai loro piedi, un corteo di fauni, ninfe e satiri in bronzo, scattanti e vitali, ad opera del maestro fiammingo Jean Boulogne, più noto come Giambologna, ognuno col suo preciso carattere magistralmente scolpito in volto. 





Ma una delle figure, più precisamente il satiro che guarda l'angolo del Palazzo, è solo una copia, modellata da Francesco Pozzi nel 1831 per sostituire l'originale rubato da una brigata di festaioli durante il Carnevale del 1830. 


Non si sa precisamente come siano andate le cose ma sembra che un gruppo di birboni mascherati da pagliacci facessero un bel girotondo intorno alla fontana, chi rivestito da pagliaccio, chi da Arlecchino, chi da Pulcinella. Ma al mattino, spenti gli ultimi scherzi e schiamazzi, ci si accorse che il deforme Pulcinella che danzava sorretto dagli amici altri non era che uno dei satiri imbacuccato nel camicione bianco della maschera napoletana. 



Probabilmente fu portato all'estero, ma sono solo ipotesi visto che non se n'èsaputo più niente né forse mai si saprà!