I Malespini furono una ricca e aristocratica famiglia fiorentina, molto potente all'epoca di Dante Alighieri, ma la loro stella fulgida cominciò a sbiadire all'inizio del Quattrocento, pur non scomparendo mai del tutto nel firmamento illustre della città. Abitavano in via Vacchereccia, in alte case torri di fazione ghibellina, ora purtroppo distrutte sia per antico odio di stampo politico che per l'ammodernamento della via, più volte rimaneggiata nei secoli. Fra questi "doviziosi e nobilissimi Marchesi", ci racconta il Lasca in una delle sue novelle, ci fu un tale Pancrazio che si trovò, suo malgrado, protagonista di un'avventura al limite dell'incredibile. Il gentiluomo aveva un'amante segreta che abitava a Ricorboli, vicino a San Niccolò. I loro incontri avvenivano solo di notte perché nulla si doveva sapere di quella tresca e il Marchese pagava fior di quattrini i guardiani delle porte perché lo facessero rientrare in città senza dare nell'occhio ad alcuno. Una volta, quando ancora mancava un'ora alle prime luci dell'alba, Pancrazio se ne tornava a casa camminando velocemente per far prima. Giunto vicino al Prato della Giustizia, oggi piazza Piave, dove venivano eseguite le condanne a morte, gli sembrò di vedere dei corpi penzolare dalle forche. Eppure era certo che quei disgraziati non ci dovevano essere più, l'aveva visto lui stesso il pomeriggio mentre calavano i cadaveri giù dalle funi.
Allora pensò che fossero degli spettri di anime dannate e profondamente sconvolto, tentò di fuggire, ma rimase impietrito dal gracchiare di una voce che cantilenava "Aspetta, aspetta, ora tocca anche a te!". Mentre raccoglieva le ultime forze per non svenire, vide una nera figura minacciosa scendere dal patibolo e dirigersi verso di lui. Fu un colpo troppo grave per il suo debole cuore e stramazzò a terra, vinto dal terrore. Ma il sinistro carnefice altri non era che la Biliorsa, una povera pazza ricordata anche da Dino Compagni nella sua "Cronica". La donna, girovagando al buio com'era suo costume, aveva raccolto in un campo una decina di grosse zucche che aveva deciso di impiccare per il lungo picciolo, facendo sia la parte del boia che quella del monaco consolatore. Vedendo arrivare Pancrazio, la Biliorsa progettò di fargli fare la stessa fine delle zucche ma lui, sul più bello, si era accasciato al suolo senza dir parola. Cercò allora di trascinarlo sul patibolo per passargli la corda intorno al collo, ma, vedendo che l'impresa era troppo ardua, abbandonò il suo nuovo passatempo per andare "dove la guidava la sua pazzia".
Frattanto si fece giorno e dei lavoratori, vedendo quel corpo inanimato, lo credettero morto stecchito, così chiamarono subito i becchini che lo trasportarono nella chiesa della Compagnia de' Neri e lo adagiarono in una bara aperta che era lì per caso. Il medico chiamato a constatare l'avvenuto decesso, si accorse invece, fra lo stupore di parenti e curiosi, che Pancrazio era ancora vivo e tanto bene applicò la sua arte che il malato guarì, ma rimase per sempre "tutto spellato e senza un pelo" per la grande paura che gli aveva gelato il sangue nelle vene.