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mercoledì 17 febbraio 2016

E gli stemmi stanno a guardare...



Il Palazzo dei Priori, che domina piazza della Signoria, ha in sé tutta la fierezza di un maestoso condottiero che ha saputo attraversare i secoli con grande dignità resistendo alle ingiurie del tempo, alla furia delle alluvioni, alla rabbia del popolo e all'assedio dei nemici. Nel 1353 furono dipinti, sotto agli archi che sostengono il ballatoio, gli stemmi della Repubblica che simboleggiano tutta la forza e l'equilibrio politico della Firenze medievale. I colori, sbiaditi dal tempo, vennero abilmente rinfrescati nel 1840 dal pittore Antonio Martini e poi, nel 1955, nuovamente restaurati dai fratelli Benini. Gli scudi erano nove, ma sono stati ripetuti due volte per esigenze stilistiche d'uniformità. Non è facile capirne il significato, così, a prima vista, se non si conoscono le vicende che sono legate alla loro storia. Vediamo quindi di interpretali insieme:


Primo scudo - la croce del popolo, rossa in campo bianco;
secondo scudo - il giglio rosso in campo bianco, simbolo della città guelfa che ricorda quando, nel 1250, i ‘buoni uomini di Firenze’ si sollevarono, cacciarono il podestà allora in carica, rinnovarono tutti gli uffici cittadini e si diedero un nuovo governo e nuove leggi;
terzo scudo - dimezzato in bianco e in rosso, testimonia l'unione e la lega di Fiesole con Firenze, sacrificando i fiorentini il loro giglio bianco e i fiesolani la loro mezza luna rossa;
quarto scudo - le due chiavi d'oro di san Pietro in campo azzurro che rappresentano la Chiesa e il papato;
quinto scudo - il motto “Libertas” a lettere d'oro su campo azzurro, lo stemma dei Priori che fu adottato sul finire del secolo XIII quando Firenze si liberò dalla subordinazione agli imperatori;
sesto scudo - l'aquila rossa, con un giglietto d'oro in testa e un drago verde fra gli artigli, l'insegna che i Guelfi ricevettero da papa Clemente IV quando andarono, nel 1200, ad aiutare il re Carlo d'Angiò nella guerra contro Manfredi di Sicilia;
settimo scudo – il giglio bianco ghibellino
ottavo scudo – l'arma di Carlo d'Angiò, seminata di gigli d'oro francesi su campo azzurro, concessa ai fiorentini come ringraziamento per averlo aiutato nella guerra combattuta contro lo Svevo e per avergli accordata la Signoria di Firenze per dieci anni;
nono scudo – l'arma di Roberto d'Angiò, re di Napoli, bipartito in lunghezza a liste rosse, gigli d'oro e un'aquila dimezzata.



Ora che abbiamo capito il segreto che si cela dietro ogni figura, potremo aggiungere un altro pezzettino di storia al lungo trascorrere delle vicende fiorentine.



lunedì 1 febbraio 2016

Il giallo della morte di Isabella de' Medici

Cosimo de' Medici, primo granduca di Toscana, e sua moglie Eleonora di Toledo ebbero undici figli, sette maschi e quattro femmine. Delle bambine venute ad allietare la grande corte fiorentina, ne rimase però solo una: Maria morì a 17 anni, Lucrezia a 16 ed Anna fece appena in tempo a vedere la luce che già lasciava la terra.

Isabella, invece, nata nel 1542, crebbe bella, forte e intelligente, tanto da essere chiamata “la stella di Casa Medici”. “Isabella – scrive lo storico Winspeare - non si faceva solo ammirare ed amare soltanto per le sue doti fisiche, e per il suo carattere vivace e allegro, ma anche per la sua intelligenza e per la sua solida e varia cultura , che rendevano le sue conversazioni piacevoli e brillanti”. Gìà, perché oltre a saper suonare una gran varietà di strumenti musicali, scrivere poesie, danzare graziosamente, parlava correttamente lo spagnolo, il francese ed era protagonista persino delle battute di caccia nel parco della villa sul colle. Inutile dire che il Granduca stravedeva per questa sua figliola tanto straordinaria e la viziava in tutti i modi possibili ed immaginabili: le aveva destinato in dono un palazzo bellissimo, Villa Baroncelli ora Villa del Poggio Imperiale, appuntamento privilegiato per eventi mondani di grande sfarzo e serate culturali allietate da concerti e gare di poesia. Quando aveva poco più di sette anni, Isabella fu promessa in sposa a Paolo Giordano I Orsini duca di Bracciano, rampollo di una delle famiglie più potenti di Roma, e nel settembre del 1558 si celebrò il matrimonio. In onore degli sposi Francesco Corteccia, musicista di corte, creò un mottetto latino e il compositore fiammingo Philippus de Monte un madrigale in cui definiva Isabella più saggia e più bella di Flora. La sera stessa della cerimonia, svoltasi in forma privata, gli sposi partirono per Roma.
G.Paolo Orsini
Ma Isabella tornò presto a Firenze, lontana da quell'orrendo marito, descritto come “una specie di mostro, in cui schifosa obesità era motivo di riso e di scherno” che la trascurava senza far mistero della sua vita dissennata e violenta.

A sorvegliare l'indipendente duchessina, che aveva un comportamento molto chiacchierato fin da giovanetta, Paolo scelse un suo cugino, Troilo Orsini che aveva però il “difetto” di essere troppo ardente e bello. L'incontro fra i due fu galeotto e sbocciò con Troilo quello che non era mai successo col marito, testimoniato da un intenso carteggio pieno di un affetto che andava ben al di là di una semplice parentela. Cosimo, che teneva paternamente d'occhio la figlia era molto preoccupato per le conseguenze di quella storia proibita, ma era certo che, finché fosse vissuto, l'Orsini non avrebbe mai osato torcerle neppure un capello. Ma non potendo essere immortale, anche il Granduca chiuse gli occhi e non appena seppellito, Paolo Giordano mise in atto la sua vendetta, da tanto covata e alimentata dall'odio per essere stato lungamente ingannato.
Era il 16 luglio 1576 e Isabella fu condotta alla villa di Cerreto Guidi dove trovò la sua tragica fine. Scrive il Lapini nel suo “Diario fiorentino”: ”...in lunedì alle ore 18 in circa, morse la signora Isabella... la quale parse a chi la vide un mostro; tanto era nera e brutta. Dissesi che era stata avvelenata; e chi disse che era stata... ammazzata...Che l'Isabella fosse uccisa dal marito con intelligenza del gran duca Francesco non può dubitarsi.. Infatti, pare che a ucciderla con una robusta corda passata intorno all'esile collo fosse stato proprio Paolo Orsini aiutato da un sicario, forse un Cavaliere di Malta, come sembrerebbe dimostrare uno scambio di corrispondenza fra Ercole Cortile, ambasciatore ferrarese, e il Duca d'Este. 

Villa medicea di Cerreto Guidi

Ma esiste anche un'altra versione, quella di una lunga malattia alle vie urinarie e biliari che l'avrebbe ridotta ad uno stato comatoso. Comunque sia andata, poco prima di spirare, Isabella ebbe qualche minuto per "chiedere il perdono dei suoi peccati" mettendosi in pace con se stessa e con il mondo. 
L'astro mediceo fini così tristemente di brillare in una calda notte di mezza estate...

Quella di Isabella e Paolo Giordano resta comunque una delle più conosciute vicende del Rinascimento ispiratrice di romanzieri e poeti di tutte le epoche che hanno, di volta in volta, interpretato la vicenda dandole un colore più rosa o nero a seconda del momento storico in cui sono vissuti.

lunedì 18 gennaio 2016

Il lunerdì dei barbieri





Un tempo i barbieri stavano aperti anche la domenica mattina e riposavano tutto il lunedì per riprendersi dalla fatica di una settimana di tagli, saponate e chiacchiere amene. Niente di strano, direte voi, sarà un contratto nazionale che regola l'orario del negozio! Ma se la ragione fosse un'altra, misteriosa e oscura, che si perde nei secoli passati?



Viveva a Firenze, verso la metà del XVIII secolo, una bella ragazza che era venuta da Napoli per fare la cameriera ma, non trovando dove andare a servizio, si era messa a fare la prostituta. La giovane Mariuccia viveva in una stanzetta ammobiliata in via san Cristofano, vicino a santa Croce, che fungeva da casa e da agenzia. Un pomeriggio fu trovata morta, ma in tali condizioni che anche le guardie arretrarono inorridite: era stata sgozzata con un taglio netto al collo e l'emorragia l'aveva uccisa proprio mentre stava per raggiungere la finestra e chiedere aiuto. Anche se l'omicidio era stato compiuto in pieno giorno, nessuno aveva visto né sentito nulla, probabilmente anche perché l'assassino era un cliente abituale, tale da non destare alcun sospetto nei vicini. La polizia mise al vaglio tutti gli uomini che frequentavano Mariuccia, ma non si arrivava mai al bandolo dell'intricata matassa, finché, per caso, fu ritrovata una sottanella di tulle che era solita indossare durante i suoi appuntamenti amorosi. La gonna era stata venduta ad un mercante ebreo da un tale Antonio di Vittorio Giani, barbiere in via Romana, con la bottega vicina al portone dell'antico convento di Annalena. Finalmente il cerchio si era stretto sul delinquente che aveva compiuto un misfatto così atroce e, dopo aver confessato di aver ucciso la ragazza per gelosia, Antonio fu giustiziato fuori porta La Croce. Era l'11 giugno 1742, lunedì mattina e tutti i barbieri di Firenze, scossi dalla notizia, chiusero bottega per assistere all'impiccagione del loro collega. 


Da allora, ogni lunedì, i barbieri non lavorarono più...

martedì 5 gennaio 2016

La Befana vien di notte con le scarpe tutte rotte...



Fino alla metà dell'Ottocento, l'Epifania era una delle festività più amate dai fiorentini. La sera della viglia c'era l'uso di portare a spasso per la città dei burattini di legno che rappresentavano i Re Magi o la Befana seguiti da una folla rumorosa ed esultante che faceva una confusione indicibile. I ragazzi suonavano delle trombette di vetro che si usavano solo per quell'occasione, la gente, portando delle torce che illuminavano i vicoli a giorno, rideva, correva e faceva scherzi ai poveri campagnoli venuti apposta per godersi la sfilata degli allegri buontemponi. Quando le brigate si incrociavano per le strade del centro, si mettevano a disputare su chi avesse il fantoccio più bello e si arrivava persino a darsele di santa ragione, passando dal gioco alla rissa in meno di un minuto. E chi non poteva partecipare al corteo, fabbricava delle vecchiacce brutte da far paura da mettere nel vano della finestra illuminata per spaventare i passanti. Tutti facevano a gara per rendere il proprio pupazzo più simile al vero, tanto che lo scrittore Giovan Battista Fagiuoli, nel 1724, racconta di un manichino che “ aveva nel collo una molla a cui era legato uno spago nascosto dalle vesti, e che tirandolo faceva fare alla befana un grazioso saluto del capo a chi dalla strada stava rivolto verso di lei per guardarla”.

Non c'era parrocchia in cui non si cantasse il Vespro solenne e la chiesa si riempiva di un numero indicibile di fedeli che si portavano dietro bottiglie, bicchieri e ogni sorta di recipiente per prendere l'acqua santa che veniva benedetta alla fine della cerimonia. Poi, dopo tanto clamore, arrivava la notte e spegneva fiaccole, animi accesi e rumori.



La debole luce mattutina rischiarava i camini a cui erano state appese delle calze ripiene di frutta secca, qualche dolcino, il carbone per i bambini birboni e per i più benestanti anche il desiderato balocco. E in quella serena semplicità si godeva del poco che si era racimolato, dividendo il gruzzolo con i bambini più poveri che non avevano ricevuto la calzina della Befana. Erano altri tempi che niente hanno a che fare con la vita frettolosa di oggi, sicuramente più ricca di allora, ma completamente priva di quello spirito innocente con cui si riusciva ad essere felici con nulla.