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mercoledì 29 gennaio 2014

Ognuno ha le sue manie!

Giuseppe Galletti era un uomo veramente strano. Nel 1688, dopo aver visto alcune impiccagioni sul pratello della Giustizia, fuori di Porta alla Croce, si lasciò affascinare a tal punto dal triste spettacolo da non riuscire più a pensare ad altro. Eppure non gli mancava niente, era sereno e rispettato, con  il suo bel lavoro di servitore nel palazzo del senatore Vincenzo da Filicaja che lo trattava con tutti i riguardi.
Vincenzo da Filicaja
Ma quando una fissazione si fa strada nella mente non c'è nulla che la possa fermare. Dopo l'ennesima esecuzione, assaporata dalla prima fila  grazie ad una lauta mancia passata al  boia in gran segreto, si mise in testa di voler fare la stessa fine dei condannati a morte, con la corda che gli chiudeva il collo, soffocandogli la vita. Per arrivare al tanto agognato supplizio doveva commettere qualcosa di veramente grave, con prove certe ed inconfutabili che  non lasciassero ombra di dubbio sulla sua colpevolezza. Dapprima cominciò a sottrarre piccole somme al suo padrone, poi via, via sempre più importanti, ma sembrava che il da Filicaia non se ne accorgesse neppure o fingesse di non vedere. Allora pensò di compiere un gesto così estremo che non potesse essere ignorato: una notte, si introdusse scaltramente nella chiesetta di Santa Brigida in via del Paradiso e rubò una piccola campana d'argento, antichissima e di gran valore.
Naturalmente non fece nulla per disperdere le sue tracce, anzi seminò indizi dappertutto, in modo che le guardie riuscissero a trovarlo quanto prima. Fu fermato, arrestato e condannato a morte, non tanto per il furto in sé, quanto per aver oltraggiato il luogo sacro dove la campanella era tenuta con tutte le cure possibili.
Una fosca mattina dello stesso anno Giuseppe Galletti fu condotto sul patibolo, proprio dove aveva ammirato l'agonia di ladri e assassini. Era calmo, fiero del suo gesto, come se non fosse andato incontro alla morte ma ad una festa., tanto che i Confortatori Neri, che accompagnavano i condannati alle esecuzioni, ne rimasero stupiti e in qualche modo, conquistati. Così si concluse l'incredibile vicenda di quest'uomo fuori dal comune che, non contento di vedere la morte altrui, aveva voluto godersi anche la sua fine fino all'ultimo respiro.

venerdì 24 gennaio 2014

Il "corridore" segreto

Palazzo della Crocetta lato via della Colonna


Quando a Firenze si parla di corridoio viene subito a mente il Vasariano, quel lungo passaggio coperto che unisce Palazzo Vecchio con Palazzo Pitti. Ma esiste un altro "corridore", segreto e dimenticato che unisce il Palazzo della Crocetta, ora sede del Museo Archeologico, con la Santissima Annunziata.

Fu fatto costruire dal granduca Cosimo II, intorno al 1620, per la sorella Maria Maddalena, nata sciancata e "malcomposta nelle membra", per farle raggiungere la basilica dal Monastero della Crocetta, dove viveva insieme alle suore, pur non avendo mai preso i voti.  L'architetto Giulio Parigi ideò un cavalcavia, lungo più di cento metri e largo appena un metro e trenta, che portava direttamente ad un coretto interno alla Santissima Annunziata da dove la povera inferma poteva assistere alle funzioni, protetta da una grata, lontana dagli sguardi dei curiosi. La finestrella, secondo un decreto dell'Arcivescovo, doveva essere "ferrata grossa con una gelosia di legno.... in maniera che la suddetta Principessa e sue donne potessero guardare in Chiesa et non essere vedute"



Nel corridoio erano collocate pitture con immagini sacre, tra le quali una serie di quadri dedicati alla Passione, illustrati con "versi Toscani" che dovevano esplicare "tutti i divini misteri" della via Crucis. La malata era accudita da due fanciulle e due vedove che l'aiutavano quotidianamente e costituivano la sua piccola corte personale, una compagnia ben diversa da quella delle sue sorelle, sane e piene di vitalità, che si inebriavano di sfarzi e di comodità.
Alla morte di Maria Maddalena, nel 1633,  il cavalcavia su via Laura fu demolito, per essere poi stranamente ricostruito nel 1788, e il corridoio imbiancato, mascherando le impronte delle tele che per tanti anni avevano seguito l'infelice passaggio dell'ottava figlia di Ferdinando I. 

Corridoio mediceo visto dall'esterno
Cavalcavia su via Laura
Cavalcavia su via Capponi 



Recenti restauri hanno però riportato alla luce alcune parti del vecchio camminamento, restituendocele in tutta la loro mistica semplicità, con la grata discreta ornata di foglie e di volute e i cuscini stinti e lisi che hanno condiviso le sofferenze segrete della tribolata principessa.



mercoledì 22 gennaio 2014

Berlingaccio e berlingozzo


Nella Firenze del Cinquecento il verbo "berlingare" era sinonimo di far baldoria a tavola, dopo aver mangiato e bevuto a sazietà. E' facile indovinare, allora, perché il Berlingaccio, ultimo giovedì di carnevale, abbia questo nome: è il giorno che chiude un periodo di allegria sfrenata e di eccessi prima che la Quaresima metta  tutti a stecchetto.
Per sottolineare l'atmosfera di bagordi è nato anche il famoso detto "Per Berlingaccio chi non ha ciccia ammazzi il gatto", ovvero anche chi è così povero da non potersi permettere di mangiar carne, segno di opulenza e di vita da signori, se la deve procurare ad ogni costo! E allora, insieme a bistecche e fritto misto, schiacciata alla fiorentina a volontà, cenci sommersi da zucchero a velo, coriandoli, stelle filanti  e fiumi di vino Chianti.
E per completare l'opera una bella fetta di Berlingozzo, una torta a forma di ciambellone originaria di Lamporecchio, patria anche dei più famosi brigidini, signori delle sagre paesane di tutta la Toscana.


  
La ricetta del berlingozzo è molto antica, se ne trovano tracce già nei poemi dell'epoca di Lorenzo il Magnifico, anche se allora non veniva consumato alla fine del pranzo  ma come antipasto. Si può preparare con molta facilità con uova, farina, zucchero, scorzette di limone, latte e lievito, il tutto ben amalgamato e messo a cuocere per un'oretta a 180°.

Non solo calcio storico...

Uno degli sport preferiti dai fiorentini antichi era "il pallone", una specie di tennis che al posto della racchetta aveva un bracciale di legno coperto di punte metalliche a piramide smussata e dal peso di circa due chilogrammi, almeno nella versione toscana. La palla, che pesava all'incirca trecentocinquanta grammi, era fatta a spicchi di cuoio cuciti insieme attorno ad una camera d'aria, sempre di pelle, ma più morbida e sottile.

Palla di cuoio e bracciale di legno di sorbo



Ogni squadra era formata da tre giocatori e ognuno aveva un compito ben preciso: il battitore doveva lanciare la palla che gli arrivava dal "mandarino", prendendo la rincorsa, per dare forza al colpo; la spalla e il terzino dovevano invece respingerla. Queste competizioni venivano fatte lungo le mura, dove si trovavano le ghiacciaie, delle porzioni di terreno rettangolari ribassate rispetto al piano stradale, che d'inverno venivano riempite d'acqua e fatte congelare. In estate, invece, si trasformavano in veri e propri campi da gioco, perfetti per il "pallone". 



Una partita fiorentina di fine Ottocento

I tifosi si accalcavano, a centinaia, in quello stadio fuori porta e seguivano con foga i loro campioni. Ricchi e poveri, nobili e popolo, personaggi altisonanti come Goethe e De Amicis mescolati ai contadini e agli operai, ma tutti uniti dalla stessa trascinante passione, Si racconta addirittura che le truppe di Garibaldi, dirette a Venezia, arrivate a Castelfiorentino arrestarono la loro marcia per assistere ad una sfida contro gli atleti di Monte San Savino, un derby così avvincente da farli quasi sorprendere dai nemici austriaci, già sulle loro tracce. 



E' chiaro che i pallonisti professionisti erano fra gli atleti più famosi e ben pagati di allora, secondi solo ai toreri spagnoli. Alcuni nomi, più di altri, sono arrivati fino a noi colmi di particolare gloria, come il pratese Puccianti, potente e straordinario per le sue volate eccezionali, e il pisano Maestrelli, meno esuberante ma con una tecnica precisa e raffinata. I giocatori più bravi erano idolatrati, proprio come accade oggi con il football, e intorno a loro si costruivano le più straordinarie leggende che prendevano spunto dalle loro eroiche imprese.



Piatto di Montelupo Fiorentino che raffigura la palla con il bracciale -
prima metà del XVII secolo



















Per oltre quattro secoli, a partire dal Cinquecento, il bracciale ha tenuto la scena fino a toccare nell’Ottocento i vertici massimi del consenso e della popolarità, considerato lo sport nazionale per eccellenza. Nella seconda metà del XX secolo, purtroppo, arrivò gradualmente il suo declino per l'introduzione di nuovi sport, soprattutto britannici,  che ben presto fecero scordare la vecchia tradizione d'origine latina delle discipline sferistiche. Messo in un cantuccio, come uno svago non più attraente come prima, il gioco del "pallone col bracciale" venne quasi del tutto dimenticato. Continuò ad esistere solo in alcuni centri della Romagna e delle Marche, paesi che ancora oggi organizzano manifestazioni e rassegne per onorare uno dei più amati giochi di tutti i tempi.

lunedì 20 gennaio 2014

La Madonna che veglia sui fiorentini

Sul tetto di Santa Trinita

Il campanile di Santa Trinita non ha fondazioni proprie e si appoggia, con tutta la sua mole, su una parete laterale della chiesa, proprio sulla Cappella Maggiore. Non c'è modo di arrivarci dalla basilica, ma bisogna salire sul tetto, camminare fra le tegole  e da lì proseguire, arrampicandosi su una lunga e stretta scala a pioli, attraverso un varco strettissimo che porta alla cella campanaria. Viaggio duro e faticoso, ma ne vale davvero la pena: il panorama che si offre agli occhi degli intrepidi scalatori è meraviglioso, uno scenario unico che abbraccia tutta Firenze, con un digradare di tetti, croci e palazzi che si sfuma verso le colline. E, tesoro fra i tesori, c'è anche la sorpresa di una piccola scultura in terracotta che raffigura Maria con il suo Bambino in braccio, incastonata come un gioiello fra le pietre del campanile. 


Viene da chiedersi come mai i monaci Vallombrosani abbiano scelto una collocazione così strana e inaccessibile, esponendo la delicata scultura alla violenza del vento e allo scempio della pioggia.  Probabilmente il ruolo della Vergine, omaggiata  solo dai piccioni e dalle nuvole, era proprio quello di proteggere il malfermo campanile da ogni sorta di calamità naturale, tenendolo ancorato con forza alla chiesa, sotto al suo sguardo materno, dolce ma fermo. Difficile identificare chi sia l'autore dell'opera ma diversi studiosi la fanno risalire addirittura a Donatello, ricostruendone le vicende che l'hanno vista arrivare lassù, nell'Ottocento, dal sarcofago quattrocentesco di Giuliano Davanzati. Nel 2004, viste le sue cattive condizioni, è stata rimossa e sostituita con una copia che, vogliamo sperare, continui a vigilare con amore sulla chiesa e su tutta la città.

Firenze vista dall'alto







mercoledì 8 gennaio 2014

A che gioco si gioca?





Chi non ha mai provato, almeno una volta, a cimentarsi con il Gioco dell'Oca? Un passatempo molto semplice, con regole elementari e facile da seguire anche dai bambini più piccoli. Tutto, infatti, si basa sulla fortuna: si lanciano due dadi e si avanza sul tabellone di tante caselle quant'è il proprio punteggio; ogni tanto, però, ci sono degli intoppi, il Ponte, l'Osteria, il Pozzo, il Labirinto e la Morte, che fanno restare fermi qualche giro o, peggio, ci riportano addirittura al punto di partenza. Mai perdere la pazienza e perseverare, così da toccare l'ultima casella, al centro, che va raggiunta con un numero esatto, altrimenti si retrocede dei punti in più. Il tabellone, pur mantenendo sempre lo stesso andamento a spirale, può avere le illustrazioni di ogni tipo, dalle classiche ochette bianche con tanto d'uova e cappellini piumati, fino alle più moderne interpretazioni, originali ed estrose. E fin qui niente di strano, direte voi, e invece sto per rivelarvi un particolare che vi lascerà di stucco: il Gioco dell'Oca è nato a Firenze!
Di trastulli simili ne esistevano già tanti, ma la versione ufficiale, quella che tutti conoscono, risale alla seconda metà del Cinquecento quando Ferdinando de' Medici ne fece dono a Filippo II, re di Spagna. Il "nuovo e molto dilettevole giuoco" affascinò a tal punto il monarca che lo regalò a sua volta ad altri nobili personaggi, favorendone la diffusione in tutta Europa. 

Il prototipo, quello di Ferdinando per intenderci, sembra fosse derivato  da un antichissimo gioco cinese, lo Shing Kunt t'o ovvero "la promozione a Mandarini che contava, però, 99 caselle, disposte in un percorso tortuoso e pieno di tranelli.
Nel XVII secolo era ormai largamente diffuso in tutta Europa e, ci è dato sapere  che era tra i passatempi preferiti di re Luigi XIII.


Ma verso la fine del Seicento, lasciate le sue origini tranquille e rilassanti, si trasformò nientemeno che in un gioco d'azzardo. Lo si poteva trovare poggiato sui tavoli delle bettole e delle trattorie popolari dove i soldi da pagare venivano talvolta indicati  da ciò che riportava la casella su cui era andato a finire il malcapitato scommettitore, tanto da farlo bandire come "gioco riprovevole e proibito".
Da allora di tabelloni se ne sono visti di tutti i tipi, ispirati alla politica, alla letteratura, al mondo delle fiabe o inventati su una storia creata appositamente per un evento speciale. Ma al di là di forme e colori, resta quell'intrigante percorso verso una méta che rappresenta, molto chiaramente, il cammino dell'uomo costellato di gioie e dolori, tant'è che viene spesso usato, con fine allegorico, nell'arte, nell'alchimia e nella cultura. La scelta dell'oca, come elemento portante del passatempo, non è casuale: al giorno d'oggi dare dell'oca ad una ragazza significa considerarla perlomeno sciocca, ma in antichità il candido pennuto era ritenuto un animale di tutto rispetto, degno di essere offerto agli dei, come ci ricorda anche Erodoto che, nei suoi scritti, parla della loro sacrale presenza al cospetto degli Egizi.

martedì 7 gennaio 2014

"A chi non piace la canzone, non piace il giullare!"







Andare a fare una passeggiata al Pian de' Giullari,  con lo sguardo che si perde fra le verdi colline di Arcetri punteggiate di olivi e di cipressi, è sempre un'esperienza emozionante. E' un piccolissimo borgo che racchiude poche strade che, partendo da via San Leonardo, arrivano a sboccare alla chiesa di Santa Margherita a Montici, lungo l'antica via che portava all'Impruneta. Benedetto Varchi, umanista e storico fiorentino del 1500, ne fa derivare il nome dagli antichi commedianti che recitavano allegre " giullarate", delle fantasiose rappresentazioni in cui si fondevano musica, danza e acrobazie. I giullari, (dal latino iocularis, giocoso) erano buffoni, saltimbanchi, mimi, giocolieri e ciarlatani, incantavano la folla con le loro smorfie buffe e con la parola sciolta, con misteriosi giochi di prestigio e con poesie ironiche che prendevano benignamente in giro i signori feudatari che li proteggevano. 








« Un giullare è un essere multiplo; è un musico, un poeta, un attore, un saltimbanco; è una sorta di addetto ai piaceri alla corte del re e principi; è un vagabondo che vaga per le strade e dà spettacolo nei villaggi; è il suonatore di ghironda che, a ogni tappa, canta le canzoni di gesta alle persone; è il ciarlatano che diverte la folla agli incroci delle strade; è l'autore e l'attore degli spettacoli che si danno i giorni di festa all'uscita dalla chiesa; è il conduttore delle danze che fa ballare la gioventù; è il cantimpanca [cantastorie]; è il suonatore di tromba che scandisce la marcia delle processioni; è l'affabulatore, il cantore che rallegra festini, nozze, veglie; è il cavallerizzo che volteggia sui cavalli; l'acrobata che danza sulle mani, che fa giochi coi coltelli, che attraversa i cerchi di corsa, che mangia il fuoco, che fa il contorsionista; il saltimbanco sbruffone e imitatore; il buffone che fa lo scemo e che dice scempiaggini; il giullare è tutto ciò e altro ancora. »
(E.Faral, Les jongleurs en France au Moyen age)
Giullari a corte
Nella bellissima villa Rucellai, incastonata fra il velluto dei colli, c'era un grande stanzone nel quale si radunavano, fin dal Trecento, i commedianti di passaggio, tanto gradevoli e bravi da lasciare un ricordo indelebile a tutta la zona, che prese addirittura il nome dalle loro gaie esibizioni.


Villa Rucellai nota anche come villa il Teatro

Purtroppo la spensierata allegria dei giocolieri venne spezzata, tra il 1529 e il 1530, dall'assedio delle truppe imperiali che si accamparono nelle tante abitazioni signorili che costeggiavano le  vie tortuose, trasformandole in centri operativi dove non echeggiavano più musiche e risate ma solo l'aspro rumore delle armi da fuoco e le grida dei condannati a morte.
Ville splendide, diverse in apparenza, eppure accomunate dalla sobrietà delle forme e dalla rigorosa struttura architettonica. Fra tutte, vale la pena ricordare Villa il Gioiello, famosa per essere stata una delle residenze di Galileo Galilei, che vi morì nel 1642, e Villa Nunes Vais, dipinta con un curioso morivo a losanghe colorate, appartenuta nel Medioevo alla famiglia dei Velluti e poi acquistata dal famoso fotografo ottocentesco.


Villa Nunes Vais già de' Velluti



Villa Il Gioiello