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martedì 2 dicembre 2014

Un affresco in Piazza della Calza... anzi due!




Piazza della Calza vista attraverso la Porta Romana
La piazza

Piazza della Calza è un piccolo gioiello dell'Oltrarno fiorentino, racchiuso dalla maestosa mole di Porta Romana. 



Pianta del Buonsignori con il Convento degli Ingesuati
La sua storia ha origini assai remote: nel Trecento vi si trovava l'Oratorio di San Niccolò con annesso un "ospitaletto" per i pellegrini che giungevano da Siena, poi il Monastero femminile di San Giovannino e infine, nel 1500, il convento dei Frati Ingesuati. Questi particolari religiosi, famosi per la lavorazione delle vetrate istoriate, indossavano un abito con un cappuccio così allungato da meritare l'appellativo di "frati della calza", denominazione che passò poi anche alla chiesa e al convento. Nel 1616, il Granduca Cosimo II, commissionò al pittore Giovanni Mannozzi, più noto come Giovanni da San Giovanni, un grandioso affresco per adornare la facciata della casa cantoniera fra via dei Serragli e via Romana, proprio davanti alla Porta. Il dipinto, che raffigurava l'Allegoria di Firenze, signora della Toscana, era veramente bello, ben studiato in ogni suo minimo particolare e nella composizione scenica ma, ahimè, non altrettanto nella scelta dei materiali, visto che doveva resistere al sole e alle intemperie. Infatti l'intonaco cedette rapidamente: i frammenti ancora integri furono staccati e conservati nei magazzini della Soprintendenza alle Gallerie, mentre la maggior parte dell'opera fu perduta definitivamente. 

Incisione che riproduce il disegno preparatorio dell'affresco del Mannozzi

La parete rimase così nuda e disadorna per molti anni finché, nel 1954, l'allora sindaco di Firenze, Piero Bargellini, bandì un concorso a tema sulla vita di Firenze per far eseguire un nuovo affresco che doveva sostituire quello seicentesco. La gara fu vinta da Mario Romoli, un artista originale e controverso che si esprimeva con un linguaggio figurativo molto vicino a quello di Picasso e Rouault. L'aderenza al soggetto proposto da La Pira, fu interpretato dal Romoli con la raffigurazione di personaggi illustri della Firenze antica - Dante, Giotto, Masaccio, Paolo Uccello, Lorenzo il Magnifico, Paolo Dal Pozzo Toscanelli, Giovanni dalle Bande Nere, Francesco Ferrucci - che osservano attentamente il lavoro dei maestri contemporanei - Rosai, Papini e, fra gli altri, lo stesso Romoli al cavalletto - in un ideale incontro fra passato e presente. Al centro, San Giovanni Battista e la Vergine Annunziata con il simbolo di Cristo. 





L'inaugurazione dell'affresco avvenne, non senza polemiche e dissensi da parte di molti artisti e letterati, il 10 gennaio 1955  e per l'occasione fu murato in una nicchia un contenitore con foto della Firenze di allora, documenti inerenti il concorso ed un messaggio dedicato ai posteri.

martedì 25 novembre 2014

Il Serraglio di Boboli

Nel 1677 il Granduca Cosimo III fece costruire un originale serraglio nel Giardino di Boboli dove furono collocati "rarissimi Animali condotti dalle più remote Regioni....  tanto Volatili, che Quadrupedi racchiusi in diversi spartimenti, e recinti, separati gl'uni dagl'altri, come pure in uno di questi molti di essi animali già morti, quali seccati, e ripieni, appariscono nell'istessa forma, come se vivi fossero". Luogo di curiosità e diletto, il piccolo zoo era una tappa obbligata durante le feste e le passeggiate, ma anche un privilegiato luogo di studio per scienziati come Francesco Redi e per artisti del calibro di Bartolomeo Bimbi e Andrea Scacciati, importanti pittori di natura morta di età tardobarocca. 



Gli animali  esotici, che provenivano da ogni parte del mondo, erano stati appositamente catturati per il serraglio oppure ricevuti in dono da sovrani di paesi lontani: uccelli d'ogni tipo in eleganti voliere, cicogne, struzzi, pappagalli, "granbestie feroci" come leoni, puma, linci e ghepardi, insieme a cervi, gazzelle, fagiani, "cani di  Spagna", scorpioni e serpenti. C'era anche una "Stanza delle Scimmie" dove i buffi animaletti affascinavano i visitatori con i loro abili equilibrismi e  furbe moine per avere uno spicchio di mela  o un biscotto. Risale al 1655 l'arrivo di un "giovine" elefante africano femmina che doveva deliziare gli spettatori con "varii giuochi" ma che purtroppo morì quasi subito per indigestione e scarso movimento. Un'altra straordinaria  presenza  fu un massiccio ippopotamo,  forse arrivato in dono dal Viceré d'Egitto, oppure, come sembrano più verosimilmente dimostrare altri fonti storiche, già presente in Boboli fin dal 1677 per il volere di Cosimo III, letteralmente innamorato della sua collezione di animali rari. Leggenda vuole che Pippo - così veniva affettuosamente chiamato - abbia sguazzato per lungo tempo in una grande vasca del giardino, incatenato in cattività, come tristemente testimonia l'impronta di una robusta corda sul suo collo. Quando morì fu consegnato ad un imbalsamatore perché ne tramandasse ai posteri l'immagine, ma il tassidermista di corte probabilmente non era all'altezza della situazione: ricucì alla bell'e meglio la pelle intorno ad una colata di gesso che simulava la forma originale, si arrangiò nella ricostruzione degli arti e dipinse di rosso acceso la bocca spalancata nella quale spiccavano i temibili denti.




Il "giardino bizarro" continuò ad arricchirsi di nuovi esemplari finché nel 1772, con l'avvento dei Lorena, gli animali furono in parte trasferiti a Pratolino, altri alla menagerie del Belvedere di Vienna ed altri ancora soppressi e destinati al Museo di Storia Naturale della Specola. Nel 1785, il Granduca Leopoldo si disfece definitivamente del bel serraglio e dette ordine a Zanobi del Rosso di trasformare il locale in un raffinato tepidario per gli agrumi che durante l'estate adornano la fontana dell'Isolotto.










martedì 2 settembre 2014

Lo stracotto alla fiorentina



Lo stracotto alla fiorentina è un piatto semplice da preparare, ma di tutto rispetto. La sua doppia funzione,  di secondo  e di sugo per condire la pasta, risolve in un solo attimo un intero pranzo! Tutto il segreto per la buona riuscita del piatto sta nella cottura che deve essere lenta e moderata e nel vino rosso, un buon Chianti forte e corposo. Sarebbe ottimale un tegame di coccio, ma si può fare anche con una semplice casseruola che regga bene il fuoco... 
Prima della scoperta dell'America, quando il pomodoro era ancora un esimio sconosciuto, lo stracotto veniva cucinato con l'agresto, una conserva semiliquida a base di mosto d’uva dal tipico sapore acidulo.


Ingredienti per 6/8 persone

Un chilo di magro di vitellone

sedano, carote, cipolla

100 grammi di carnesecca

olio extra vergine 

poca farina

1 bicchiere colmo di vino rosso 

1 litro di brodo 

polpa di pomodoro

sale e pepe


Tagliare a piccoli pezzi tutte le verdure e la carnesecca e farli soffriggere nell'olio già caldo. Quando avranno preso un leggero color nocciola, aggiungere la carne e farla rosolare bene da ogni lato, evitando però che imbrunisca troppo, altrimenti diventerà dura e stopposa. Versare il vino fin quasi a farlo evaporare. Solo allora, spruzzare  il vitellone di farina e coprirlo con la polpa di pomodoro, tirandolo a cottura con il brodo, via via che il liquido diminuisce. Sorvegliare bene lo stracotto perché in un attimo può ridursi il sugo e far bruciare tutto! Ci vorranno dalle due alle tre ore di cottura, quindi pazienza e perseveranza! Ricordarsi di non salare troppo perché alla base c'è il brodo che è già abbastanza saporito di suo ed è sempre meglio aggiustare di sale dopo che dover buttare via tutto poi!
L'Artusi definisce lo stracotto "un companatico" che, letteralmente significa "da mangiare con il pane": e chi resiste, alla fine, a non raccattare tutto quel buon sugo con due belle fette di pane toscano?





lunedì 4 agosto 2014

Chirurgia plastica nel Rinascimento




Il David, sicuramente uno dei simboli fiorentini più conosciuti in tutto il mondo, fu realizzato dal Buonarroti fra il 1501 e il 1504, dopo mesi di fatiche e di difficoltà di ogni genere. Il candido blocco di marmo era infatti fragilissimo e costellato da numerose fenditure che rendevano pressoché impossibile una buona riuscita. Altri due valenti scultori , Agostino di Duccio e Bernardo Rossellino, si erano cimentati nell'ardua impresa, ma avevano ben presto abbandonato il progetto, sentendosi frenati dalla cattiva qualità della pietra e dalla sua forma troppo slanciata. La sfida fu invece raccolta dall'allora venticinquenne Michelangelo che, sfruttando i primitivi abbozzi fatti dagli altri scultori,  riuscì a liberare dal marmo una delle più belle figure giovanili che si fossero mai viste fino ad allora. Geloso del suo genio e del suo lavoro, fece costruire una palizzata intorno alla sua creazione che, finalmente, si offrì agli occhi dei fiorentini nel maggio del 1504. Naturalmente, allora come ora, c'è chi ha sempre da ridire e anche questa volta il solito presuntuoso non mancò di fare le sue antipatiche osservazioni: quando la scultura era quasi finita, il gonfaloniere della Repubblica Pier Soderini volle andare di persona a verificare i progressi del maestro e, guardando con aria da fine conoscitore la fiera testa ricciuta , affermò decisamente che il naso era troppo lungo e non adatto al resto dei lineamenti più raffinati. Allora il Buonarroti, fine ed arguto come ogni fiorentino che si rispetti, nascose in una mano della minuta polvere di marmo e, facendo finta di aggiustare con lo scalpello il profilo dell'eroe biblico, la lasciò cadere dall'alto dei quattro metri dell'impalcatura su cui si era dovuto arrampicare per fargli credere di rimaneggiare il volto.
Quando Michelangelo scese, con un sorriso sornione domandò al Soderini se il naso fosse  finalmente armonioso come lui desiderava. Questi non ebbe esitazioni ed esclamò:  "Visto che avevo ragione? Ora è davvero perfetto!",  facendo in tal modo la meschina figura che si meritava.


venerdì 2 maggio 2014

Un giardino nel giardino

Il Giardino di Boboli, cuore verde e romantico di Firenze, è veramente famoso in tutto il mondo. Si può definire, e non a torto, uno splendido museo all'aperto dove arte e natura si incontrano in un connubio perfettamente riuscito. Sentieri alberati, arcate di alloro, vasche marmoree, statue che occhieggiano fra le siepi, formano uno splendido caleidoscopio di emozioni che cambiano con il mutare delle stagioni e con la luce del sole. 





Come in una scatola cinese, nel giardino sono racchiusi altri giardini, pieni di rose, di agrumi e di cascate fiorite in grandi orci di cotto imprunetani. Fra tutti, spicca per la sua elegante freschezza, il Giardino degli Ananassi dove, nel 1400, si coltivavano specie esotiche provenienti da lontane terre fino ad allora sconosciute, come il caffè e, appunto, l'ananas, introdotto dal Granduca Pietro Leopoldo.




Nel corso dei secoli il giardino ha cambiato talmente tante volte il suo aspetto da non avere più una precisa identità finché, nel 1852, il botanico palermitano Filippo Parlatore, nuovo direttore del giardino, lo riorganizzò totalmente trasformandolo in un Erbario con piante, frutti e semi rari provenienti da tutto il mondo. 
Filippo Parlatore

Qui serre e tepidari favorirono la coltivazione di piante tropicali, raggruppate secondo precisi criteri di distribuzione geografica, e di numerose piante idrofite ospitate nell'Aquarium, un bacino circolare suddiviso in quarantotto celle. Dall'epoca di Firenze capitale ad oggi, il Giardino degli Ananassi ha continuato ad arricchirsi di nuove specie con un occhio di riguardo anche all'estetica, sapientemente curata con un intervallarsi di piante a terra ed in vaso, prati, fontane, arbusti insoliti e pregiati. 


Camminando serenamente fra peonie sgargianti, alberi secolari, ortensie, gerani, palme e agrifoglio, si possono ammirare anche molte piante acquatiche e palustri, come le scenografiche ninfee che hanno ritrovato la giusta collocazione nell'Aquarium che Parlatore aveva fatto costruire, tra il 1870 e il 1880, appositamente per loro, ma che era stato letteralmente ricoperto da grandi cumuli di terra e vegetazione, sottraendosi così agli occhi degli studiosi.




Grazie alla perizia di Paolo Basetti, giardiniere esperto in restauro botanico che collabora con l'ufficio tecnico del Giardino di Boboli, il degrado di qualche anno fa è solo un ricordo e tutto ha ripreso vita, ospitando anche raffinati incontri letterari che trovano, in questa cornice romantica, il loro ideale scenario.

martedì 29 aprile 2014

Il nano di Cosimo I

Nella cultura popolare antica i nani rappresentavano l'incarnazione del male e del peccato che si rivelavano al mondo attraverso le varie deformità di quei corpi sgraziati.Questa visione patologicamente malsana perdurò fino a gran parte del Medioevo, tant'è che venivano reietti al pari di prostitute, ebrei, lebbrosi, musulmani e assassini. Non trovando posto nella società come normali individui, sfruttarono la loro bruttezza per far divertire la gente, inventandosi il mestiere di giullari e buffoni.
Guardati con sospetto dalla Chiesa che ne condannava il modello di vita, sbeffeggiati, ridicolizzati e famosi soprattutto per le loro volgari facezie, sopravvivevano grazie alla carità di qualche ricco signore che li prendeva con sé a guisa di animali esotici da conservare insieme ad altre strane curiosità, elencati negli inventari insieme ai gioielli e agli oggetti preziosi.
In Italia i buffoni fiorirono soprattutto nel Rinascimento e, pur mantenendo la loro caratteristica di stravagante anomalia, riuscirono a ritagliarsi un posto d'onore nelle grandi regge europee, inizialmente solo come gingilli di lusso da mostrare agli ospiti, ma poi, pian piano, taluni appropriandosi anche del ruolo di mentori e confidenti. 
A Firenze, resta immortale l'esempio di Braccio di Bartolo, meglio conosciuto come Morgante, vissuto nel XVI secolo alla corte di Cosimo I de' Medici. Il soprannome era stato beffardamente accostato alla figura del gigante dell'omonimo poema di Luigi Pulci, ma se non grandioso di membra lo era nello spirito: intelligente, colto e astuto, era uno dei preferiti di Cosimo che lo scelse addirittura come confidente, portandolo con sé in alcuni dei suoi viaggi diplomatici. 


Tacca e Giambologna- Monumento a Cosimo I  (sullo sfondo il nano Morgante)
Fu immortalato dai più bravi maestri della sua epoca, sia in dipinti che in scultura, basti pensare alla famosissima fontana del Giardino di Boboli, di Valerio Cioli, che lo ritrae nudo, a cavallo di un'enorme testuggine. 





Agnolo Bronzino fermò il suo personaggio in un doppio ritratto in veste di "uccellatore" , prima e dopo la caccia,




mentre il Giambologna si ispirò a lui per realizzare una fontanella bronzea in cui,sempre nudo, era stavolta seduto su un mostro marino, custodito al Bargello. 




Non sono molte le notizie sulla vita di Braccio di Bartolo: sembra che l'unica cosa certa è che abbia avuto dei figli e che Cosimo gli abbia regalato un appezzamento di terreno per farli crescere senza affanni. Per celebrare il suo ricordo, il Lasca compose un delicato poema "In morte di Morgante nano" da lui definito, un po' crudemente, un "misto d'uomo e di bestia", ma, poi riprendendosi, "mostro grazioso e bello", tanto da meritare nei cuori di chi lo piangeva lo stesso dolore che si riserva ad un uomo normale...


















domenica 27 aprile 2014

Il Cimitero Monumentale Ebraico in viale Ariosto



In viale Ludovico Ariosto, racchiuso da un alto muro che ne preserva gelosamente la sacralità, c'è il Cimitero Monumentale Ebraico, costruito nel  1777 ed in uso fino al 1870, quando ne fu aperto un altro, più nuovo,  in via di Caciolle, nella zona di Rifredi. Anche se appare molto trascurato, vale la pena di andarlo a visitare perché offre una testimonianza artistica e storica di grande valore, soprattutto per la presenza di raffinate cappelle funerarie in stile neoegizio e neorinascimentale  e lapidi molto antiche. Secondo l'uso ebraico, le tombe non devono essere eccessivamente elaborate e recare l'immagine del defunto, per cui quelle monumentali sono estremamente rare, tanto che in questo cimitero se ne contano solo tre, disposte lungo il viale centrale. 




La prima, appartenente alla famiglia Levi, costruita subito dopo l'Unità d'Italia, ha forma piramidale ed è rialzata dal terreno grazie ad un ampio basamento in pietra. Il portale d'ingresso è decorato con lo stemma della stirpe e con un rigoroso frontone triangolare. All'interno si conservano ancora  delle corone fatte di foglie, ormai ingiallite e secche, che sicuramente avranno accompagnato le salme fino al loro ultimo viaggio. 





Accanto alla piramide c'è un'altra cappella, quella della famiglia Servadio, quasi interamente nascosta dalla vegetazione incolta. Anch'essa è stata realizzata in stile egizio ed è ornata da raffinati pilastri a fascio, mentre il sarcofago è posto sotto al simbolo del disco solare alato a rappresentare la divinità, la regalità e il potere.





Il terzo sacrario, quasi sicuramente realizzato su disegno del Treves, l'architetto che ha anche progettato la sinagoga fiorentina, è completamente diverso: si tratta di un tempietto con pareti aperte, ben divise da colonne e il tetto con tegole poste a squame di pesce.























Le altre sepolture variano da semplici sarcofagi molto lineari a quelli riccamente decorati con sculture di tessuti ricadenti, foglie e fiori, zampe leonine e rovine di colonne antiche.



Il cimitero è aperto solo una domenica al mese: la visita, della durata di circa un'ora, va prenotata telefonicamente.



lunedì 21 aprile 2014

Una romantica passeggiata

Camminare a piedi non solo fa bene alla salute, ma anche allo spirito. Uno degli itinerari più struggenti e suggestivi è certamente via delle Forbici, un'antica strada che, partendo da viale Volta, si inerpica su per il colle fino a giungere a San Domenico. Incassata fra le mura, come un gioiello prezioso, ombreggiata dalle fronde di alberi secolari, offre ad ogni passo lo stupore di un palazzo antico, di un maestoso cancello che si apre su giardini silenziosi.

Villa il Ventaglio - via delle Forbici
Il nome della via deriva dallo stemma dei Della Tosa, meglio conosciuti come Tosinghi, un emblema formato da un paio di forbici d'argento per tosatori in campo azzurro.





Nella parallela via di Barbacane, che come via delle Forbici serpeggia in salita, si può vedere una delle curiosità più strane di Firenze: sul muro in curva, dove sbocca in via della Piazzola, c'è una famosa iscrizione in latino che spiega "A matre et filia aeque disto" ovvero Fiesole, la madre, e Firenze, la figlia, sorgono ad identica distanza da questa lapide ancora ben leggibile, nonostante l'usura del tempo. 






Ma, dietro al fascino della  rivelazione, c'è un errore storico: Florentia, infatti, non era un'appendice di Fiesole ma fu fondata dai romani nell'anno 59 prima di Cristo, anche se alcuni studi ipotizzano che furono proprio gli etruschi di Fiesole a scendere al piano e ad insediarsi in un punto strategico dell'Arno, dove addirittura installarono un ponte di legno e pietra per poter meglio accedere al fiume.


lunedì 31 marzo 2014

Via della Loggia de' Bianchi


Via della Loggia de' Bianchi (da via delle Gore a via Dazzi nella zona di Careggi).



In questa breve via immersa nella campagna, lontana dai frastuoni moderni, c'è ancora un piccolo, ma grazioso oratorio cinquecentesco dove pare si sarebbero fermati alcuni pellegrini chiamati "Bianchi" a causa delle loro lunghe vesti candide con tanto di cappuccio a coprire il volto. Erano dei penitenti che provenivano da Chieri, un piccolo comune in provincia di Torino, che dirigendosi a Roma, affrontavano il duro cammino flagellandosi e gridando a gran voce "Pace e misericordia". Questa particolare confraternita contava all'inizio pochi fratelli ma, con il passare del tempio, la schiera dei credenti aumentò a tal punto che perfino il Papa dovette prenderne atto e riconoscerli come una vera e propria realtà all'interno della Chiesa, concedendo indulgenze e grazie a tutti coloro che ne entravano a far parte.
A Firenze, nel 1399, ne giunsero più di 40.000 e si accamparono fuori delle mura della città. Stremati dal cammino e dalle malattie, affamati e sanguinanti per le ferite che gli martoriavano la schiena, furono curati e sfamati dalla Signoria fiorentina. A Roma, nell'anno giubilare 1400, ne giunsero meno della metà e i pochi sopravvissuti portarono con sé il flagello della peste che spense definitivamente la loro devozione.
A ricordo del loro passaggio, un mercante bergamasco, Bernardo Corona Da Ponte, fece erigere una Loggia su un preesistente tabernacolo che fu affrescata da Ulisse Giocchi, su disegno del Poccianti, con la leggendaria processione della Compagnia penitenziale, alla presenza dei committenti e dei loro rispettivi patroni. 



Anche l'abitazione al numero 1 della via, la Casa dei Bianchi, una grande villa signorile, costruita attorno ad una torre medioevale, reca con sé gli stessi caratteri cinquecenteschi della Loggia.

mercoledì 26 marzo 2014

L'Accademia della Crusca




Villa Medicea di Castello, sede attuale dell'Accademia della Crusca
L'Accademia della Crusca è la più antica accademia linguistica del mondo e raccoglie i più emeriti studiosi ed esperti di linguistica e filologia della lingua italiana. Sorse ufficialmente a Firenze il 25 marzo 1585, grazie alla "brigata dei crusconi" , un gruppo di letterati fiorentini che, pur giocosamente, si proponevano di purificare la buona lingua dalle scorie, modellandosi agli scritti dei grandi autori del Trecento.
Nel 1590 fu scelto, come simbolo dell'Accademia, il frullone, un cassone di legno che si adoperava per separare la farina dalla crusca e come motto il verso del Petrarca “il più bel fior ne coglie”.


Anche gli oggetti e l'arredamento dell’associazione dovevano avere nomi attinenti al mondo della panificazione, compresi gli stemmi degli accademici, delle pale di legno in cui era dipinta un’immagine simbolica accompagnata dal nome e dal motto scelto.
Nel 1612 fu stampato, a Venezia, il primo "Vocabolario degli Accademici della Crusca" che rappresentò per secoli la risorsa più preziosa per tutti coloro che volevano scrivere in buon italiano.


Oggi l’Accademia della Crusca è il più importante centro di ricerca scientifica dedicato allo studio e alla promozione della lingua italiana, lavoro che fa con impegno e sapienza, sia nella sua sede, la splendida villa medicea di Castello, sia online, mettendo a disposizione del pubblico una Biblioteca specialistica e il proprio Archivio, organizzando seminari e convegni sull’italiano e continuando il proprio pregevole lavoro editoriale.



martedì 25 marzo 2014

La zuppa di polmone alla fiorentina








Oggi vi presento un piatto della tradizione fiorentina, non a tutti gradito, perché l'ingrediente principale è il polmone, una frattaglia che, insieme alla trippa e ai fegatelli, regna da secoli sulle nostre tavole toscane. E' la 


                                                 Zuppa di polmone

Ingredienti per 4/5 persone: 300 gr. di polmone, cipolla, aglio, un bicchiere di vino bianco, 150 gr di pasta da minestrone, salvia e ramerino.



Prima di cominciare a cucinare, il polmone va lasciato 3 ore in acqua fredda a spurgare; dopodichè si lascia bollire per mezz'ora circa con carota, sedano, cipolla e un pizzico di sale. Poi si può procedere preparando un trito con cipolla, porro e aglio e si fa appassire nell'olio; aggiungere il polmone tagliato a pezzetti piuttosto piccoli e farlo insaporire. Versare mezzo bicchiere di vino bianco e farlo asciugare. Aggiungere, a questo punto, un litro circa di acqua e far cuocere per circa un'ora. Aggiungere, poi, la pasta da minestrone e portare a cottura e un battutino di ramerino e salvia, aggiustando di sale e di pepe. 

La ricetta può essere arricchita con ceci, lenticchie o fagioli borlotti, secondo il gusto personale.

mercoledì 19 febbraio 2014

Una via al giorno... via degli Avelli

Via degli Avelli (tra piazza Santa Maria Novella e piazza della Stazione)









"Avello" era il nome che si dava anticamente alle tombe e infatti, sul lato ovest della strada, c'è il cimitero di Santa Maria Novella con le lapidii in bella vista. Secoli fa, la via era molto stretta e ci si trovava, bene o male, a fare i conti con l'odore malsano che arrivava dai sepolcri e che sicuramente ha dato vita al famoso detto ""puzzare come un avello"! Ogni arco corrisponde ad una sepoltura e reca sia lo stemma della famiglia a cui apparteneva che la croce del Popolo fiorentino.

In una di queste tombe Giovanni Boccaccio ambientò una delle sue novelle mentre nel terzo avello lungo la parete destra della chiesa venne sepolto il pittore Domenico Ghirlandaio con tanto di ritratto a grandezza naturale, ora purtroppo scomparso.

Una via al giorno... Via del Limbo

Via del Limbo - zona via del Parione




Il nome curioso fa subito pensare alle anime dei bambini non battezzati ai quali è negato il Paradiso o alla Divina Commedia, ma con l'aldilà e con Dante non c'entra proprio nulla! Con "limbo" si indicavano infatti le cantine dove si mesceva il vino, un'insegna che gli osti mettevano ben in vista per attirare i clienti, promettendogli viaggi in altri mondi dopo aver fatto il pieno di vino...E infatti, c’erano poco più in là, anche un’Osteria del Purgatorio e una dell'Inferno, richiami arcani per serate più che terrestri! 

Una volta la strada era molto più lunga e tortuosa, mentre adesso è mutilata nel suo dipanarsi da costruzioni più moderne e da cancelli che l'hanno completamente snaturata.